di Cristiana Era
Il Libano è tornato al voto dopo ben nove anni dalle ultime elezioni parlamentari. La lunga pausa elettorale non dovrebbe in realtà stupire: il Libano è un Paese multi confessionale, come viene definito in generale, con una struttura sociale e politica molto complessa e da sempre al centro di contese ed influenze regionali nelle quali si mescolano “e si scontrano“ fattori etnici, politici, culturali e religiosi. Una storia ricca e articolata, caratterizzata da precari equilibri interni e per questo attraversata da periodiche crisi tradottesi anche in conflitto, ma comunque una storia mai lineare e prevedibile. Uno Stato, più che una nazione, che è una scacchiera su cui attori vicini e lontani giocano le loro partite, e le loro guerre “per procura”. Esattamente come sta succedendo adesso in Siria.
Queste elezioni sono state seguite attentamente da molti, a livello locale come a quello internazionale. Perché, appunto, si vedranno confermati o meno i timori di alcuni Paesi e le speranze di altri. Sotto la lente di ingrandimento la performance dei partiti sciiti Hezbollah e Amal, filo siriani e filo iraniani, e del Movimento Futuro del Premier sunnita Saad Hariri, sostenuto da Arabia Saudita e da diversi Paesi occidentali.
Dal punto di vista interno, i risultati non comportano nessun cambiamento: la carica di Presidente non è oggetto di elezioni e quindi il maronita Michel Aoun rimane in carica; il druso Nabih Berri, Presidente del Parlamento ormai sin dal 1992 vedrà confermato il proprio ruolo, così come Hariri quello alla premiership, nonostante il tramonto della coalizione del 14 marzo e l’indebolimento della propria immagine personale. Apparentemente, dunque, e a dispetto della nuova legge elettorale che ha parzialmente introdotto un sistema proporzionale, il Libano post-elezioni non si discosta da quello pre elettorale: stessi nomi, stesse cariche.
In realtà , i risultati del voto indicano che qualche cambiamento è in atto, ma i suoi effetti non sono immediatamente visibili ed infatti pochi ne hanno rilevato il peso che potrebbero avere nel medio e lungo termine. Con la nuova e articolata legge elettorale, approvata a fine 2017, l’affluenza alle urne avrebbe dovuto risultare più elevata, almeno secondo gli intenti dei suoi promotori. Invece, i dati ufficiali, come annunciati dal Ministro dell’Interno Nohad Machnouk, parlano di una percentuale inferiore alla metà degli aventi diritto, un mero 49,2% a fronte del 54% del 2009. Per molti si tratta di un chiaro segno di disaffezione dei libanesi per una politica di interessi personali, culturali e familiari (stranamente invece poco legati alle singole religioni) che non cambia e non può cambiare. Ma si tratta di una politica che si è protratta per decenni e la disaffezione non può essere un fattore determinante per interpretare il calo dei votanti. Si spiega meglio, piuttosto, con la legge elettorale che nella sua complessità ha comportato ritardi e disfunzioni non solo al momento della registrazione degli aventi diritto, ma anche al momento del voto, costringendo i libanesi ad ore di attesa per poter accedere alle urne. Altrettante difficoltà si sono riscontrate per i libanesi residenti all’estero, per la prima volta ammessi al voto.
A urne chiuse, il significativo calo di consensi per Hariri significa un indebolimento del principale avversario del Partito di Dio, a tutto vantaggio di quest’ultimo, con crescente preoccupazione dei Paesi che da sempre lo appoggiano. Hezbollah esce vincitore, insieme ad Amal e al Movimento Patriottico di Aoun, e ottiene oltre la metà dei 128 seggi parlamentari, quindi entra di diritto a far parte del prossimo governo di coalizione. Ma anche questo successo va interpretato e soprattutto non può essere definito – come impropriamente è stato fatto da alcuni – uno “strapotere”. Nonostante la capillare organizzazione del partito sciita, anni di combattimenti sul fronte siriano e le difficoltà di far fronte economicamente a tutte le necessita della propria base elettorale ne stanno minando il consenso, soprattutto nella Valle della Bekaa che da anni è una delle roccaforti che fornisce sostegno elettorale e combattenti ma che ha anche visto il partito impegnarsi finanziariamente e socialmente soprattutto nel sud del Libano, con la conseguenze percezione di abbandono. I vertici di Hezbollah, con Sayyed Hassan Nasrallah in testa, hanno dovuto imbastire una capillare campagna elettorale nella Bekaa per far sentire nuovamente la propria presenza e ammettere di non aver fatto abbastanza per lo sviluppo del distretto. Ma gli sciiti devono fare i conti anche con un sentimento crescente di ostilità nei confronti dell’influenza iraniana sulla politica interna e con un fattore generazionale che vede, dal 2009 ad oggi, un bacino di circa 800 mila nuovi elettori che non hanno memoria del conflitto israelo-libanese e sui quali dunque l’ideologia della resistenza ha poca presa. L’affermazione di Hezbollah è quindi il risultato di una combinazioni di elementi, a partire dall’indebolimento del principale avversario alla tenuta dell’alleanza con Amal e altre forze politiche e, infine, ad una campagna elettorale che è riuscita a mantenere le proprie posizioni e puntando sugli aspetti economici e di mala gestione del Paese, non senza aver fatto registrare brogli e intimidazioni sugli avversari. E sicuramente in futuro il partito sciita potrebbe modificare, magari anche solo parzialmente, politiche, struttura e anche ideologia. Però, l’emergere di candidati indipendenti e di volti nuovi, la partecipazione al voto dei libanesi espatriati e un ricambio generazionale della base, oltre ad un accresciuto sentimento di ostilità verso le ingerenze di potenze straniere nella politica interna del Libano, indicano che il Paese potrebbe affrontare una fase di transizione nel medio periodo.