di Serena Lisi
Da una quindicina di anni a questa parte, i temi legati a sicurezza, al contrasto della criminalità e gestione del mondo cyber viaggiano spesso su strade parallele che, però, non sempre riescono ad incontrarsi. In particolare, è dall’inizio del nuovo millennio che in Europa si cercano misure per garantire sia la sicurezza dei cittadini UE che di quelli extracomunitari che della Comunità Europea: il 23 novembre 2001, infatti, è stata firmata la Convenzione di Budapest sul cyber crime, poi entrata in vigore a tutti gli effetti nel 2004, per garantire quello che, proprio a fine 2004, fu definito “lo spazio di libertà e sicurezza dell’Unione Europea”. Con questa espressione, l’UE designava sia ciò che rientrava nei confini fisici dello spazio Schengen, sia quello spazio virtuale (non necessariamente cibernetico) legato all’acquis comunitario e al framework europeo, fatti di norme e consuetudini. La Convenzione di Budapest stabiliva, appunto, norme-quadro e linee-guida per gli Stati aderenti su temi quali i delitti contro la sicurezza dei sistemi informatici, le violazioni informatiche (falsificazioni, frodi, accessi non autorizzati), i reati di pedo-pornografia e i reati contro la proprietà intellettuale e il diritto d’autore.
Stabilite queste fattispecie e il peso del reato connesso a ciascuna di esse, ogni Paese avrebbe poi dovuto emanare leggi ordinarie e decreti attuativi che andassero a creare in concreto la disciplina e la sanzione dei reati connessi. A questo proposito, l’Italia ha agito mostrando una doppia faccia. Da una parte, ha potenziato nuclei investigativi e corpi di eccellenza, come ad esempio la Polizia Postale, i Carabinieri del ROS e altri Nuclei di Esperti di Carabinieri e Guardia di Finanza. Dall’altra, però, la normativa è stata adattata al quadro europeo con molta lentezza ed in modo frammentario. La legge n.48, con la quale la Convenzione di Budapest è recepita all’interno dell’ordinamento italiano, risale solo al 2008: essa, in buona parte, introduce alcune “novazioni”, rettifiche e soppressioni agli articoli del Codice penale e di Procedura Penale già esistenti, come ad esempio l’art 491bis c.p. (sanzioni per identità e firme false, anche in digitale), art. 635 c.p. (danneggiamento di altrui materiali e dati, anche informatici), art 247 c.p.p. (adeguata conservazione e sequestro di prove di un eventuale reato, anche digitale), art. 612 bis c.p. (atti persecutori, anche penali, è tipo cyber-stalking).
Questi esempi indicano come, nonostante le innovazioni apportate, la normativa non vada al passo con i tempi. I settori più deboli, che necessiterebbero di una immediata integrazione, sono tre: quello, oggi estremamente attuale e dibattuto, del cyber-stalking; quello della corretta conservazione e lettura, nonché dell’adeguato sequestro di dati probatori telematici; quello della protezione del diritto d’autore e della proprietà intellettuale. Il primo tema è assai delicato e forse la normativa potrà essere aggiornata a breve proprio perché assai dibattuta: il cyber-stalking è una piaga sociale che va ad intrecciarsi con altre fattispecie assai complesse come il bullismo e quello che oggi viene chiamato, con termine forse poco appropriato, “femminicidio”. Da una parte, la ratio usata per le sanzioni dei reati di cyber-stalking è giusta, poiché alcuni di essi sono letti come aggravanti del già esistente reato di stalking/persecuzione; tuttavia, resta aperta una questione che riguarda il peso di queste aggravanti e la tracciabilità di tale reato, oggi non sempre così facile come sembra.