di Cristiana Era
Come sa (o dovrebbe sapere) ogni studente di scienze politiche o di giurisprudenza alle prime armi, una società organizzata necessita di regole, indispensabili all’esistenza, allo sviluppo e alla sicurezza: ubi societas, ibi ius, recita il detto latino nei testi di diritto, a sottolineare che qualunque comunità non può prescindere dallo stato di diritto. La capacità di autoregolarsi con le leggi e di farle rispettare, a maggior ragione, rappresenta lo stato di salute di “si perdoni la ripetizione“ di uno Stato, non necessariamente democratico. Quando questa viene a mancare si parla di “fragile State” quando in condizioni di controllo istituzionale precario, o “failed State” quando le istituzioni non riescono a far rispettare le leggi e a controllare il territorio. E naturalmente il segno più evidente dell’assenza dello stato di diritto è la mancanza di sicurezza.
Uno Stato consolidato non è di per sé immune a forze disgregatici che possono progressivamente minare la legittimità istituzionale, lo stato di diritto interno e la sicurezza dei cittadini. E’ in effetti quello che potrebbe succedere a seguito del fenomeno delle migrazioni di massa oggi in atto. L’ondata massiccia ed incontrollata di migranti è un fattore sociale, politico ed economico destabilizzante per qualunque Paese se tale fenomeno non è “come sembra“ temporaneo. E’ in primo luogo un problema politico, come abbiamo e avremo modo di osservare anche in futuro. In un contesto non unitario, come quello Europeo, e purtroppo anche come quello italiano, un fenomeno di così forte impatto emotivo genera forti contrapposizioni e radicalizza le posizioni dei partiti e dell’opinione pubblica che li muove. E’ quello che sta succedendo in questi giorni, alimentato colpevolmente dai media che devono riempire gli spazi mediatici e speculano, appunto, sui fattori emotivi che fanno sempre audience, insistendo sulle stesse notizie. Mancano all’appello, invece, analisi razionali non politicizzate, mea culpa per noi analisti, schiacciati da opinioni politiche urlate e dai giornalisti che fanno gli opinionisti.
Una analisi razionale del fenomeno deve necessariamente indicare tutti i possibili fattori di rischio per la sicurezza e la stabilità, e non può nascondere aspetti scomodi dal punto di vista del politically correct, altrimenti non è una analisi. Così come qualunque questione, anche quella riguardante la migrazione illegale andrebbe affrontata sempre dal punto di vista dell’interesse nazionale. Le istituzioni di un Paese, infatti, hanno l’obbligo giuridico di difendere la sicurezza, garantire la stabilità e l’ordine pubblico, proteggere gli interessi solo della popolazione nazionale, quindi nel nostro caso degli italiani e di tutti coloro che vi risiedono legalmente a qualunque titolo. Al di là di obblighi internazionali a cui l’Italia ha aderito (ma che non possono avere la priorità sulla sicurezza interna), le istituzioni non hanno invece alcun obbligo dal punto di vista giuridico e morale (quest’ultimo fa riferimento alla sfera personale e, semmai, religiosa) di tutelare gli interessi dei cittadini del resto del mondo se non in caso di pericolo imminente.
Poiché la questione delle imbarcazioni alla deriva dei migranti non rientra più nell’ambito dell’emergenza occasionale, ma fa parte di una politica ben studiata per obbligare gli Stati costieri a soccorrere ed accogliere quelli che di fatto diventano immigrati illegali, è chiaro che qualunque politica che voglia arginare il fenomeno non può limitarsi alla chiusura dei porti ma deve prendere in considerazione una strategia generale volta ad ostacolare il flusso migratorio già dal Paese di origine contrastando e dove possibile eliminando le reti di trafficanti che sono radicate lungo le tratte che portano in Europa. E’ altresì evidente che un tale sforzo non può essere fatto se non di concerto con i Paesi di origine dei migranti e in collaborazione con tutta la comunità internazionale nelle sedi appropriate.
Se non si interviene a questo livello, come più volte abbiamo sottolineato in CSA magazine, le misure volte ad impedire gli sbarchi diventano necessarie per garantire internamente la sicurezza e la stabilità che non sono espressioni emotive di paure ancestrali come propagandato da taluni partiti politici, bensì sono elementi portanti per la sopravvivenza della comunità stessa. Esempi a livello internazionale abbondano, a partire da Paesi come l’Afghanistan, per passare a Paesi perennemente in equilibrio precario come il Libano.
L’Italia non è in grado di sostenere il flusso continuo di migranti non controllati e non controllabili. L’immigrazione illegale degli anni passati sta già mettendo a dura prova un Paese che di per sé non riesce ad uscire dallo stato di crisi economica perenne. Le politiche di integrazione non hanno apportato sostanziali benefici: la maggior parte dei migranti proviene da aree con culture e tradizioni totalmente diverse che facilmente entrano in contrasto con quella nazionale. Si rischia di cancellare la nostra cultura e la nostra religione per non sembrare e non essere tacciati di razzismo per far spazio a chi non vuole restare nel proprio Paese ma pretende di vivere secondo le proprie usanze non accettando i doveri “insieme ai diritti“ di chi accoglie. Occorre qui fare attenzione perché non si tratta di aspetti minoritari. Quando si vuole vivere in un Paese, se ne deve accettare la cultura senza pretendere che i suoi simboli o i suoi usi e costumi vengano rimossi perché considerati offensivi per la cultura straniera. Chi non può tollerare per credo religioso o altre convinzioni il sistema di vita di un Paese, non può nemmeno pretendere di viverci a modo suo. Le istituzioni hanno l’obbligo di far rispettare leggi e cultura, che non possono essere applicati con il sistema dei due pesi e due misure (come fa ad esempio l’Europa). Sta anche alle varie componenti della società agire in modo univoco e compatto, invece di alimentare divisioni.