di Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Il mondo in cui viviamo è sempre più preda di tensioni e conflitti che mettono in pericolo la pace e la prosperità dei cosiddetti “Paesi sviluppati”. Essi infatti dipendono appunto dalla stabilità mondiale per mantenere la loro situazione di benessere, grazie al commercio internazionale. In questo, l’Italia non è un’eccezione, anzi. La sua carenza di risorse naturali l’ha indotta a diventare un Paese manifatturiero, di trasformazione, per cui l’esportazione dei prodotti del nostro ingegno è un pilastro essenziale del nostro pur relativo benessere.
La posizione geografica dell’Italia, oltretutto, è quanto mai scomoda: siamo al tempo stesso un ponte che si protende verso l’Africa, ma siamo anche il collegamento tra la Francia e l’Europa centrale, nonché tra quest’ultima e il Mediterraneo, nel quale alla lotta che sconvolge la galassia islamica nel Medio Oriente si aggiungono i contenziosi marittimi sulle zone economiche esclusive.
Come se non bastasse, la storia ci ha tramandato tensioni, rivalità e rancori tra i Paesi europei, che riaffiorano periodicamente. Il revanscismo russo, le dispute greco-turche e l’attuale lotta all’ultimo sangue nel Medio Oriente sono infatti alcune tra le molte dispute che traggono origine dal passato, e sono gravi minacce da prevenire, e quando ciò si riveli impossibile, da contenere e delimitare.
Il Mediterraneo è, peraltro, anche una delle principali vie del commercio marittimo internazionale, un’attività che segue da sempre le vie più brevi e vantaggiose, specie quelle in cui i pericoli sono minori. La sua stabilità è quindi per noi la condizione indispensabile della nostra prosperità. Purtroppo, chiuso com’è tra lo Stretto di Gibilterra e la sua doppia porta orientale, Suez e Bab-el-Mandeb, il bacino in cui siamo collocati è dominato solo da chi possegga le chiavi di questi suoi accessi e intenda usarle per il bene comune. Gli altri possono controllare ciò che avviene al suo interno, ma se una delle due porte viene chiuse, il Mediterraneo diventa un mare di povertà diffusa.
In particolare per quanto riguarda l’Italia, la nostra dimensione – come osservava Salvemini – è quella di potenza più piccola tra i grandi e la più grande tra i piccoli, e la nostra dimensione limitata ci rende difficile agire da soli. Per questo, da anni, ci siamo legati agli altri Paesi occidentali: per poter influire sugli eventi in modo collettivo.
Ma vi è un altro motivo per la nostra adesione alla NATO e all’Unione Europea: spesso, per il fatto di dover assumere comportamenti coerenti con quelli dei nostri partner abbiamo potuto temperare le conseguenze delle nostre debolezze interne, compiendo scelte impopolari anche se virtuose. Rimane però, non curabile, il difetto della nostra limitata coesione interna, facilmente sfruttabile da altri. “Francia o Spagna, purché se magna”, dice un vecchio detto popolare, segno della nostra secolare soggezione alle Potenze del momento e alla nostra attenzione nei confronti del vincitore.
Da tutto ciò discende la necessità, per le nostre Forze Armate, di svolgere un doppio ruolo. Esse, infatti, non sono esclusivamente dedite a contrastare minacce e rischi sul piano internazionale, mediante forze ad alta capacità combattiva, ma hanno anche responsabilità di rilievo in quanto presidio delle Istituzioni. Fin dall’inizio della nostra storia unitaria, esse hanno dovuto sostenere le Forze dell’Ordine, spesso in affanno, a fronte delle gravi minacce di tipo endogeno che si manifestano da sempre sul nostro territorio; a queste, negli ultimi tempi si sono aggiunte minacce di tipo esogeno, quale il terrorismo. Questo richiede forze relativamente a bassa densità di armamento, ma numerose.
Lo stesso tipo di forze serve, in realtà, anche per parare tutti i problemi causati, negli spazi di interesse del nostro Paese, da chi persegue strategie indirette contro di noi per condizionarci o per danneggiarci: lo sfruttamento delle migrazioni, la pirateria, lo stesso terrorismo, per non parlare dei flussi della droga, sono fenomeni che, talora, hanno sponsor, statuali o meno, che vogliono imporci la loro volontà.
Non ci si può, quindi, illudere di fare quello che altri Paesi europei hanno fatto, focalizzando le Forze Armate sulle azioni esterne e quindi lasciando alle Forze dell’Ordine il compito esclusivo di controllare la situazione nei nostri spazi sovrani. La gravità dei nostri problemi interni è tale che questo tipo di approccio risulterebbe perdente.
E’ ben vero che, sul piano esterno, la sempre più violenta conflittualità tra nazioni e tra attori non statuali, che aspirano a conquistare uno spazio di potere, impone un ripensamento dell’entità di forze di “prima linea” che devono essere dotate di capacità dissuasive tali da imporre il rispetto nei nostri confronti. In effetti, noi offriamo numerosi e facili bersagli potenziali, avendo numerose comunità e iniziative imprenditoriali all’estero, la cui protezione sta diventando sempre più necessaria. Anche la partecipazione alle operazioni multinazionali richiede mezzi avanzati e potenza di fuoco notevole, se non altro per garantirci una maggiore influenza sulle decisioni collettive.
Da tutti questi problemi emergono esigenze decisamente elevate, superiori a quanto possiamo permetterci finanziariamente, per lo strumento militare. Se infatti volessimo disporre di forze numericamente adeguate, tutte di capacità elevata, il nostro “Stato sociale” ne verrebbe pesantemente intaccato, e oltretutto ci troveremmo, spesso, a usare mezzi estremamente costosi e sofisticati per compiti importanti, ma in ambienti di minaccia limitata.