Da circa un mese, circolano notizie circa una possibile correlazione tra lo sviluppo della pandemia da Covid-19 e l’uso della tecnologia 5G nel mondo delle telecomunicazioni. Fino a qualche giorno fa queste teorie erano state etichettate come “cospirazioniste”, pur avendo creato scalpore e, talora, reazioni violente come l’incendio di alcuni ripetitori nel Regno Unito.
Oggi queste teorie sono tornate alla ribalta perché citate e rivisitate da un personaggio illustre, il Premio Nobel per la Medicina 2008 Luc Montagnier. A seguito di questa notizia, anche in Italia, una nuova ondata di polemiche “e di paure“ si è fatta largo, tanto che alcuni comuni hanno anche emanato ordinanze che bloccano l’installazione di ripetitori che supportano il 5G.
Quest’ultima notizia ha creato varie reazioni a catena dato che, in un certo senso, le ordinanze collidono con quanto previsto dal Decreto “Salva Italia” che prevede, seppur non troppo chiaramente, che reti e servizi del settore telecomunicazioni siano potenziati al massimo per garantire la massima connettività grazie alla cosiddetta banda ultra larga. Molte sono le discussioni aperte in merito ma, ad oggi, sembra mancare una considerazione fondamentale a proposito di aspetti economici e strategici legati ad un concetto che oggi sembra furori moda ma che, in realtà, è strettamente legato alle sorti di ciascun Paese della Comunità Internazionale: l’interesse nazionale. In questi giorni, infatti, stampa, esperti di settore ed opinione pubblica stanno catalizzando l’attenzione su quanto le onde elettromagnetiche diffuse con tecnologia 5G possano nuocere alla salute umana e all’ambiente, ma non si stanno occupando di un aspetto altrettanto importante.
A parte un fugace commento fatto da agenzie stampa legate al Governo degli Stati Uniti, nessuno sta discutendo su chi sia il proprietario delle infrastrutture critiche deputate al funzionamento della tecnologia 5G, né su chi abbia i diritti sull’omonimo brevetto o, ancora, su chi andrà materialmente a gestire le reti a copertura del territorio nazionale. I tre principali fornitori di modem sono aziende di Paesi extra-europei, peraltro concorrenti tra loro sia sul versante economico che, in un certo senso, su quello politico: la Qualcomm (USA), la Hawey (Cina), la Samsung Exynos (Corea). Visti questi dati, alcune riflessioni sorgono spontanee: la prima riguarda il fatto che l’Italia non ha preso una posizione certa sull’appalto delle attività di installazione, configurazione e mantenimento delle infrastrutture delle reti 5G.
Ne è un esempio il fatto che il COPASIR (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica), inizialmente, aveva negato l’accesso di Hawei a questo tipo di attività in Italia ma, al contrario, il Ministro dello Sviluppo Economico aveva aperto uno spiraglio circa possibilità di collaborazione con l’azienda cinese. La differenza di posizioni si spiega con il fatto che sono stati presi in considerazione due diversi concetti legati all’interesse nazionale: da una parte, la protezione strategica del patrimonio nazionale di dati dei cittadini, delle aziende e degli Enti pubblici, civili e militari; dall’altra l’interesse economico espresso dalla corsa al prezzo più basso. La situazione, tuttavia, si complica se pensiamo alla situazione della compagnia statunitense Qualcomm: se la compagnia pare essere ben accetta in Italia dal punto di vista della gestione delle politiche di privacy, dall’altra sorgono dubbi circa l’inattesa collaborazione della stessa con il Dipartimento per l’Information Technology di Mosca e con Lenovo, società cinese nata nel 1984, che ha acquisito IBM e dispone di sedi negli Stati Uniti stessi. Dal canto loro, Federazione Russa e la Cina fanno parte dei Paesi BRICS che, a tempo debito, stavano progettando le proprie backbones (linee di comunicazione strategiche, sottomarine e nello spettro elettromagnetico) per le comunicazioni telematiche, in modo da non appoggiarsi alle preesistenti dorsali euro-atlantiche. Per quello che riguarda il terzo attore, Samsung, coreano, salta agli occhi per il ruolo che, proprio oggi, in tempi di emergenza sanitaria, la Corea ha avuto nella messa in evidenza di ritardi e disfunzioni comunicative proprio a proposito della catena dei contagi da Covid-19.
La riflessione si fa ancor più profonda se pensiamo che, in Italia, la cosiddetta “fase 2″ si sta avvicinando: con il suo inizio, dovrebbero partire anche le operazioni di tracciamento dei soggetti positivi al SARS-COV2 e della relativa catena di contatti, che dovrebbe avvenire attraverso Immuni, un’app da installare “al momento su base volontaria“ sui propri dispositivi mobili. In attesa del via libera del Garante per la Privacy, il Commissario Straordinario per l’Emergenza ha divulgato una notizia rassicurante, ma forse non ancora esaustiva ai fini della presente riflessione: i dati saranno salvati su server pubblici nazionali e il movimento degli stessi dovrebbe avvenire attraverso una struttura ad hoc. Il problema risiede nel fatto che, ad ogni modo, le reti di comunicazione veloce, quelle più idonee alla tempestiva comunicazione dei dati sanitari, saranno proprio quelle 4G e, dove disponibili, 5G, tecnologia per la quale resta il nodo irrisolto circa la gestione da parte di attori extra-europei. I dati sanitari, così come le infrastrutture critiche del settore medico, sono un patrimonio strategico essenziale per ciascun Paese, al pari di quelli su brevetti industriali, applicazioni militari e vulnerabilità sistemiche.
Come tali, essi devono essere tutelati e gestiti con la massima attenzione: le storie degli attacchi semantici alle cartelle cliniche dei pazienti dell’Ospedale Gradenigo di Milano (2013) e di altri ospedali della Provincia di Roma e di Napoli (2019) sono un monito importante, così come i caveat fatti dai servizi di intelligence di molti Paesi Europei ed Extraeuropei circa possibili incursioni di medical intelligence a carico degli Stati più colpiti dalla pandemia Covid-19.