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La brezza della Primavera araba abbatterà la Giordania?

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di Cristiana Era
Anche il piccolo regno hashemita di Giordania ha subìto gli effetti della primavera araba che ha travolto in modo molto più marcato i vicini Paesi arabi e di Maghreb e Mashreq. Complice la crisi economica, Re Abdallah si è ritrovato a dover affrontare richieste di riforme sempre più pressanti dal basso e allo stesso tempo dover frenare l’ingombrante presenza dei Fratelli Musulmani che – nonostante le versioni ufficiali contrarie - vedrebbero volentieri l’abbattimento della monarchia, troppo laica per gli standard islamici.
Ignorare le richieste popolari o sottovalutare le forze islamiste può essere pericoloso: la monarchia potrebbe vacillare e Abdallah lo sa bene. Basta uno sguardo alla Siria, allo Yemen, all’Egitto per rendersene conto. E il regno si barcamena per evitare di finire nel caos “primaverile”. In 2 anni il sovrano ha cambiato ben 5 governi e sciolto un Parlamento a fronte del persistere della situazione di crisi economica. La Giordania non è autosufficiente quanto a produzione di petrolio, è costretta ad importare da Iraq ed Egitto. Quest’ultimo, però, è anch’esso alle prese con problemi energetici ed ha sospeso le forniture, mentre il governo ha ridotto i sussidi agli idrocarburi e presto sarà costretto a ridurli anche in altri settori. Tutti elementi, questi, che hanno fatto impennare i prezzi del carburante con pesanti ripercussioni interne.
Il Re moderno, con al fianco una Regina tutta “glamour e fashion” che piace tanto all’Occidente, ha fino ad ora gestito le proteste tramite riforme annunciate, piccoli ritocchi e cambi di ministri, ma non ha sostanzialmente modificato l’apparato di regime. Le elezioni dello scorso 23 gennaio, per le quali il Re stesso ha fatto ampia campagna mediatica, non hanno di fatto apportato alcun cambiamento sostanziale allo status quo. Il Fronte Islamico d’Azione (il partito dei Fratelli Musulmani in Giordania) insieme ad altri partiti islamici e ad alcune formazioni liberali hanno boicottato le elezioni con il risultato che l’opposizione ha ottenuto 27 seggi su 150 solo perché alcuni candidati non hanno aderito al boicottaggio. In breve, le forze pro-Abdallah hanno ottenuto la maggioranza assoluta. Si ripropone, quindi, lo scenario di sempre, con le forze islamiche vittime della loro stessa strategia poiché il boicottaggio non ha portato all’invalidazione dei risultati.
A meno di un cambio radicale in senso realmente riformatore, la Giordania rimane uno Stato in bilico. Il Paese dipende in gran parte dai finanziamenti esteri e dall’importazione di beni ed energia. L’elevata corruzione (per combattere la quale in ottobre Abdallah aveva nominato premier Mahrouf Bakhit poi a sua volta indagato per corruzione), la carenza di risorse, gli sperperi della corte e della monarchia di fronte alle crescenti difficoltà della popolazione (molte critiche si sono levate per i fastosissimi festeggiamenti per i 40 anni della Regina Rania), la riduzione dei flussi finanziari dai Paesi arabi vicini (soprattutto Arabia Saudita) e i 300 mila rifugiati siriani che a breve creeranno una vera e propria emergenza umanitaria sono tutti elementi capaci di trasformare proteste fino ad ora relativamente pacifiche in sommosse di piazza.
Due fattori hanno fino ad ora frenato la deriva del regno hashemita: la popolarità di cui ancora gode il sovrano e le mancate capacità del Fronte Islamico di Azione di mobilitare le masse e di assumere il controllo delle proteste, come invece avvenuto in Egitto. Ma ciò non basterà a mantenere la monarchia al potere nel medio e lungo termine.

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