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2014: il manico l’ha in mano la Fed (USA)

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di Aroldo Barbieri
Le debolezze di Cina, Europa, Italia
 
Il passaggio di consegne fra Ben Bernanke e Janet Yellen alla guida della Federal Reserve degli Stati Uniti ben interpreta i mutamenti che il 2014 promette, che vedono gli USA e la sua banca centrale guidare le danze non solo al il di là dell’Atlantico, ma nel mondo intero. Sì perché ancora, e ancor più nell’anno che inizia, sarà la politica monetaria americana a determinare la via d’uscita dalla crisi nel segno della gradualità dalla sbornia del debito privato, trasformato transitoriamente al di là dell’Atlantico in debito pubblico. Ben Bernanke, all’inizio dell’estate 2013, aveva gettato scompiglio nella finanza mondiale, accennando alla necessità di ridurre fino ad azzerarla la creazione di moneta attraverso l’acquisto da parte della FED di 85 miliardi di dollari di titoli “tossici” al mese. L’effetto annuncio fu sufficiente a stornare parte dei fruttuosi investimenti dei ricchi del mondo dai Paesi in via di sviluppo a quelli più sicuri, ma meno redditizzi, dei Paesi deboli dell’Occidente, Italia compresa. E’ iniziata allora la riduzione dello spread fra titoli tedeschi, troppo poco remunerativi, e quelli italiani e spagnoli, un po’ meno sicuri, ma con interessi più alti. Bernanke fu costretto a fare marcia indietro, per il pericolo concreto di un deflusso troppo veloce dei capitali dai Paesi in via di sviluppo. Ma a dicembre il “tapering” è iniziato: la Fed ha ridotto gli acquisti di titoli pubblici e obbligazioni pericolose da 85 a 75 miliardi al mese, visto che il PIL degli USA nel quarto trimestre del 2013 è cresciuto per oltre il 4% e che la banca centrale stava intercettando troppe obbligazioni, tanto che il tre anni avrebbe avuto in pancia il 50% dei titoli obbligazionari. I mercati, che temevano peggio, l’hanno presa bene e il dollaro si è addirittrura indebolito in un primo momento sull’Euro, per rafforzarsi poi, in linea con i fondamentali che vedono gli Usa ben più forti dell’Europa della moneta unica. La Yellen, democratica e scelta da Obama proprio perché garante di un uscita soft da una situazione anomala, che vede tassi di interesse vicini allo zero,  enormi flussi monetari a sostegno della borsa e del sistema bancario americano, debutta con alle spalle un mini taglio alla creazione di moneta. Ma la direzione è segnata: si tratta solo di studiare il ritmo giusto di rientro. D'altronde chi può vantare se non l’America (spalleggiata dall’Inghilterrae dagli altri Paesi di lingua inglese) un sistema collaudato e integrato fatto di multinazionali che pagano ovunque poche tasse, del controllo della rete (che vale anche spionaggio industriale), di banche che gestiscono la massima parte del risparmio mondiale,  di una ricerca scientifica e tecnologica ancora al vertice? Per non dimenticare la potenza militare.
La Cina, vero futuro competitor di Washington, impegnata nel trasformare il suo export verso prodotti a maggior valore aggiunto e nell’incremento dei consumi interni, ha dalla sua solo una bilancia dei pagamenti fortemente attiva, ma ancora tanti squilibri da colmare. Diciamo che sta investendo su un primato (se tutto andrà per il verso giusto) di qui a qualche decennio. Squilibri tra sistema bancario ufficiale e “shadow banking” (banche “ombra” che fanno capo a trust industriali), tra città e campagna, fra grande impresa pubblica, favorita dal sistema politico e bancario, e PMI a corto di credito, con sulla testa la spada di Damocle di una bolla immobiliare. La condizione dell’Europa (ma esiste davvero o si sta rinazionalizzando?) si riassume nei seguenti dati: con l’8% della popolazione mondiale detiene il 20% della ricchezza globale, ma consuma quasi il 50% del welfare. Di qui un debito pubblico reale medio vicino al 100% della ricchezza prodotta. Il rientro dal debito pubblico è ostacolato dalla politica della Germania. I tedeschi, forti di un debito pubblico più basso, ma soprattutto più sostenibile (non a caso sono rimasti gli unici nella zona Euro a potersi fregiare delle tripla A, insieme a Lussemburgo e Finlandia), per via di un sistema Paese più funzionante e grazie alla crisi (che ha portato ingenti capitali a rifugiarsi da loro) non ne vogliono sapere di assumersi il peso del primato, dello Stato guida, e continuano imperterriti in una politica di contrasto all’inflazione (che non c’è: siamo allo 0,8% medio con un target BCE dichiarato del 2%; il pericolo è anzi quello opposto: la deflazione). Il risultato è quello dell’Euro forte, che rende più arduo l’export dei Paesi meno competitivi, come l’Italia, del più difficile riassorbimento del debito pubblico (i soli tagli di spesa deprimono la domanda interna e causano disoccupazione), del drenaggio da parte delle banche delle risorse disponibili per sostenere l’acquisto dei titoli del debito pubblico, piuttosto che alimentare la produzione.
L’Italia, in questo contesto, con un debito superiore al 130% del PIL, dovrebbe approfittare della tregua dello spread, tornato ai livelli precedenti la crisi acuta, per riqualificare la spesa, per ridurre insomma quella improduttiva (evitando le scorciatoie dell’aumento delle tasse e l’irrispetto dei diritti acquisiti) e tornare ad investire, prima che i tassi tornino in salita, perché allora il nostro debito, nonostante i sacrifici fatti, potrebbe divenire difficilmente sostenibile, soprattutto se il Paese non sarà tornato a crescere almeno del 2% l’anno.
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