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Il puzzle ucraino

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di Cristiana Era
Il 20 giugno scorso, il neo Presidente ucraino Petro Poroshenko proclamava il cessate-il-fuoco unilaterale nelle regioni orientali di Luhansk e Donetsk per una settimana, ottenendo in cambio una analoga dichiarazione da parte dei separatisti filo-russi e una parziale apertura di Putin che ha “chiesto” all’Assemblea Federale (il Parlamento russo) di ritirare l’autorizzazione all’intervento militare nell’ex repubblica sovietica. Una mossa, quella di Mosca, salutata dalle cancellerie occidentali e da Kiev come un primo passo costruttivo verso la giusta direzione. Per tutti, o quasi, più che il cessate il fuoco – mai rispettato da nessuna delle due parti – è stata la decisione di Putin a ridare speranza per una risoluzione politico-diplomatica di un conflitto che pochi hanno il coraggio di definire per quello che è, ossia una guerra civile. L’interruzione del cessate-il-fuoco da parte di Kiev appena dieci giorni dopo e il seguente bombardamento aereo delle postazioni dei secessionisti filo-russi hanno successivamente ridimensionato tale speranza. 
Cosa ha spinto Poroshenko a forzare la mano in una fase particolarmente delicata, sfidando gli avvertimenti del Cremlino? In un contesto in continuo cambiamento quale quello della crisi ucraina non è facile dare una risposta univoca. Anche perché attorno ad essa si annidano i ricordi della Guerra Fredda, in un passato non troppo lontano. E come allora molte decisioni vengono prese sulla base di percezioni (realistiche o meno), incomprensioni e diffidenze. Poroshenko non sa esattamente fino a che punto Putin si spingerà nell’appoggiare i ribelli filo-russi dell’autoproclamatasi Repubblica di Novorossiya (24 giugno) e il suo Premier Aleksandr Borodai. Il Presidente ucraino, però, non può permettersi di perdere altri pezzi di territorio dopo la secessione della Crimea e la sua annessione alla Russia. La firma dell’accordo di associazione con l’Unione Europea del 27 giugno – quello stesso accordo che ha portato alla caduta di Yanukovych – è per Kiev la garanzia che comunque il Paese non ritornerà nell’orbita russa, ma resta un interrogativo su quanto sia invece determinato e certo l’appoggio dell’UE se le cose dovessero peggiorare ai confini orientali con la Russia. E lo stesso dubbio si può avanzare nei confronti degli Stati Uniti, al momento i più fermi nel sostenere Poroshenko: c’è infatti da chiedersi se da parte ucraina l’appoggio dell’Occidente sia stato attentamente valutato. Perché il sospetto che in fondo Europa e Stati Uniti (e NATO) non siano disposti a sacrificarsi più di tanto per l’Ucraina rimane. Come dire: l’appoggio c’è fintanto che non ha un costo, in termini militari e – c’è da scommetterci – economici. Francia e Germania già tentennano, mentre l’Italia (che comunque non ha un peso né diplomatico, né politico) ha interessi economici con Gazprom che al momento opportuno la faranno defilare da un’azione che possa comprometterli. Poroshenko deve dunque sperare che il braccio di ferro con Putin si risolva con la decisione di quest’ultimo di arrivare ad una soluzione negoziata. 
Il Cremlino certamente vuole arrivare al negoziato, ma secondo i propri termini. Quello che in Europa, e forse anche in America, si continua a sottovalutare è il sentimento nazionalista russo. Con l’espansione ad est, l’Unione Europea è arrivata ai confini russi in modo incauto e irresponsabile, di fatto aprendo la via della crisi odierna. Per Mosca l’Ucraina non è solo una delle ex repubbliche sovietiche ma il confine stesso da non oltrepassare per non sentirsi minacciata. Come sottolinea il rapporto dell’International Crisis Group (ICG) del 14 maggio scorso, la politica dell’Occidente dopo il collasso dell’URSS è stata percepita non solo dalle istituzioni russe ma anche dalla popolazione come una continua umiliazione, mescolata ad una generale diffidenza della NATO (anch’essa in rapida espansione verso est). L’ascesa di Putin e la sua crescente popolarità interna sono dovute alla sua capacità di opporsi all’Occidente dimostrando di saper difendere gli interessi russi nel mondo. La prima dimostrazione fu la guerra in Georgia, dalla quale, sottolinea l’ICG, i russi trassero la convinzione che qualunque loro azione non sarebbe stata seguita da alcuna seria reazione occidentale. Ed è quanto probabilmente il Cremlino si aspetta anche dall’Ucraina. 
Se l’opzione militare diretta di Mosca non sembra così certa, probabilmente è perché dai tempi della Guerra Fredda le cose sono cambiate e il Presidente russo può utilizzare altri mezzi per vincere le sue battaglie. Il ricatto energetico, come ormai appare evidente ai più, è uno di questi e può avere effetti molto più dirompenti dell’uso della forza militare. La minaccia di Gazprom di lasciare l’intera Europa al freddo chiudendo i rubinetti del gas è reale: chi pensa che in fondo l’EU rimane un mercato energetico di cui la Russia non può fare a meno e che quindi il gas continuerà ad arrivare attraverso l’Ucraina non ha una visione completa dei rapidi cambiamenti dello scenario geostrategico sull’energia. 
Nel tentativo di mostrare i muscoli, e a complemento delle sanzioni economiche contro la Russia, nel marzo scorso il Commissario europeo per l’Energia Gunther Oettinger ha annunciato il blocco delle trattative sul South Stream, il secondo corridoio energetico che dovrebbe portare il gas russo all’Europa attraverso il Mar Nero, bypassando l’Ucraina. Secondo le dichiarazioni ufficiali, gli accordi conclusi con gli Stati di transito (Bulgaria in primis) non rispetterebbero la normativa europea, ma forse nelle motivazioni rientra anche il tentativo dell’UE di bloccare – o perlomeno rallentare – la realizzazione del South Stream, che non solo gioca un peso nella questione ucraina, ma è anche in diretta concorrenza con il TAP, la Trans-Adriatic Pipeline, gasdotto che allacciandosi come diramazione alla Trans-Anatolian Pipeline (TANAP) porterà il gas azero – e forse in futuro anche quello turkmeno e kazakho – dal Mar Caspio all’Europa, passando per Albania e Italia. TAP e South Stream sono dunque in diretta concorrenza ma in entrambi si intersecano gli interessi sia europei che russi. Se, infatti, la russa Rosneft fa parte del Consorzio di Shah Deniz, in Azerbaijan, da dove parte l’intero Corridoio Meridionale (in cui rientrano i progetti TANAP e TAP), l’italiana ENI partecipa con un 20% di quote azionarie (insieme al 15% della francese EDF e al 15% della tedesca Wintershall) al South Stream. E guarda caso, proprio Francia e Germania hanno fatto recentemente pressioni per la continuazione del cessate-il-fuoco da parte di Kiev insistendo sulla necessità di trovare un accordo negoziato tra le parti.
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