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Conti pubblici: basterà la nuova manovra?

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di Gino Falleri
Per via dei conti pubblici, della dialettica intorno ad essi, dell’altalena sulle misure che dovevano essere adottate e delle ripetute giornate nere delle borse, non ha avuto l’eco che si meritava un interessante articolo di Giovanni Sartori pubblicato a Ferragosto sul Corriere della Sera dal titolo “Quando saremo dieci miliardi”. Ad ottobre la Terra conterà 7 miliardi di abitanti. Per la fine del secolo, secondo le previsioni, la popolazione mondiale toccherà il traguardo dei 10 miliardi.
La crescita demografica non è un argomento nuovo. In genere se ne parla poco, anche in seno alle istituzioni europee. Passa sotto silenzio. Tuttavia è stato un tema, con i connessi problemi, su cui Aurelio Peccei, presidente del Club di Roma, ha più volte richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica. Questo avveniva all’inizio degli anni Settanta dell’altro secolo.
Quanto illustrato da Sartori, ha insegnato alla Columbia University di New York, sebbene non sia in cima alla lista delle attuali priorità non è da prendere sotto gamba. Impone più di una riflessione. Soprattutto se si considerano quali e quanti potranno essere i problemi legati al suo incremento e questi non potranno essere affrontati e risolti solo attraverso la tecnologia. Un esempio è costituito dalle falde acquifere, che consentono l’irrigazione. Senz’acqua niente produzione agricola.
Altri erano e sono al momento gli argomenti di particolare interesse e di conseguenza quanto prospettato da Sartori pur essendo di grande caratura è stato inserito nelle liste di attesa. L’attenzione è stata concentrata sull’irrisolvibile crisi economica, che affligge il mondo occidentale dall’autunno del 2008, sull’altalena delle borse, sui giudizi formulati dalle agenzie di rating, sul declassamento degli Stati Uniti, sugli incontri bilaterali franco-tedeschi, sulla lettera della Bce, che avrebbe commissariato il nostro governo, e infine sulla manovra suppletiva di agosto per portare nel 2013 il bilancio in pareggio. Un provvedimento criticato sia dalla Banca d’Italia che dalla Corte dei Conti, nonché osteggiato da tutti, opposizione e parti sociali. Anche per via dei continui ripensamenti e con il dubbio che sia insufficiente. Su cui ha dovuto fare un richiamo pure il presidente della Repubblica poiché non esaustivo.
Sulla crescita siamo al quasi inesistente, mentre è indispensabile. Sulle riforme strutturali siamo alle solite. Sempre annunciate e finora mai realizzate. I costi della politica immutati nonostante i proclami. Una manovra nel suo complesso non apprezzata dalla stampa estera - Financial Times, mai a nostro favore, e Wall Street Journal -  e che inciderà non poco sulle tasche dei soliti noti. Tuttavia una piccola considerazione di carattere generale non guasterebbe.
La manovra, approvata dal Senato, è oltremodo indispensabile, ma è sbilanciata. Non taglia la spesa pubblica, che fagocita buona parte delle entrate. A cominciare dagli enti locali, che non sono così virtuosi come vogliono apparire. Per mantenere inalterate le loro risorse, e per iniziative sovente non condivisibili, ritornano sempre sul solito ritornello: se si taglia non possono assicurare i servizi. Ebbene, il paese del Bengodi non esiste più. Se si vogliono mantenere inalterati gli attuali livelli di benessere - servizi pubblici, assistenza sanitaria, pensioni di anzianità, asili nido, trasporti pubblici con la miriade dei portoghesi e quant’altro è stato legiferato e concesso - è necessario fare una scelta: o lo Stato liberale o quello del welfare. 
Se si sceglie il secondo bisogna produrre le necessarie risorse. E queste si realizzano con l’incremento del Pil, che finora non esiste, e la ridistribuzione delle risorse: Con le tasse locali e nazionali sul reddito e sulla ricchezza di ciascuno sempre più alte, con i ticket e balzelli vari. Ma fino a quando un siffatto sistema può reggere con le nostre regole del tutto a tutti?
Pur presi da problemi di indubbia caratura non poteva sfuggire il recente incontro bilaterale di Parigi tra Nicolas Sarkozy ed Angela Merkel, i due grandi dell’Unione, per le decisioni che avrebbero concordato e quale il loro impatto nelle sedi comunitarie che contano. Se non altro perché Francia e Germania ritengono, a torto o ragione, di essere la guida dell’Unione europea. Di essere titolati a segnare sulla lavagna i buoni e i cattivi, e a indicare cosa si debba fare o non fare. Quindi impongono a Bruxelles la linea da seguire. Le politiche nazionali passano attraverso la capitale belga e senza il placet delle istituzioni comunitarie ben poco è lasciato all’autonomia dei singoli paesi. 
Ebbene da Parigi non sono venute fuori notizie confortanti per chi ha squilibri di bilancio.  I due leader, dopo aver pensato a tutelare gli interessi dei loro paesi e alle misure per ridurre l’esposizione delle loro banche in Grecia, Italia e Spagna, si sono espressi a favore di una maggiore integrazione politica e fiscale dell’eurozona. Hanno proposto la creazione di un governo per l’economia, l’introduzione di una tassa europea sulle transazioni, subito osteggiata dalle borse, e l’obbligo del pareggio di bilancio da inserire nelle costituzioni dei paesi dell’area dell’euro. Infine hanno detto no agli Eurobond, che costituivano un progetto della Commissione, giustificando il diniego con la constatazione che il sistema economico dei paesi dell’area dell’euro non è omogeneo. Ed un altro no, chiaro e tondo, lo hanno espresso sull’aumento del fondo europeo di stabilità finanziaria.
Non tutti hanno concordato. Le decisioni di Parigi, pur essendo ineccepibili sul piano del rigore, stanno conferendo ulteriore forza ad una domanda che negli ultimi tempi alcuni si sono posti assieme ad un’altra e attendono risposte. La prima riguarda proprio la tenuta dell’Unione Europea. Se quella preconizzata da Jean Monnet, subito dopo il conflitto mondiale che ha coinvolto l’intero pianeta dal settembre 1939 all’agosto 1945, forte dei suoi ideali e dello spirito di solidarietà per dare vita all’integrazione poggia ancora su quei valori. La seconda si riferisce invece alla moneta unica. Se non sia il caso di introdurre il doppio euro, come è stato prospettato da uno studio della Cardiff Business School e della Nottingham University.
In attesa delle risposte che dovranno essere fornite dagli esperti e dai governanti, una comunque l’ha già data David Sassoli europarlamentare del Pd con un recente articolo pubblicato su l’Unità, non si può non segnalare che la grandezza, la lungimiranza politica e lo spirito di solidarietà si vedono nel momento del bisogno. Nello stesso tempo per uscire dalle secche sarebbe necessario un nuovo modello europeo di sviluppo, come ha auspicato Tremonti al Meeting di Rimini. Sarà pur vero che il sistema economico non è omogeneo, ma Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, si permette giudizi nei nostri confronti, e Italia non navigano in acque tranquille. Se non si ha interesse a far saltare tutto, a parte i richiami a non vivere al di sopra dei propri mezzi, qualche misura di sostegno dovrebbe essere presa.
L’Italia ha un debito stratosferico, qualcosa come oltre 1900 miliardi di euro, che richiederebbe l’adozione di drastiche ed impopolari misure per ricondurlo a livelli sopportabili. Non nasce oggi. Ha iniziato a lievitare dai tempi del pentapartito con l’avallo dei sindacati e dell’opposizione. I vari governi che si sono succeduti dall’inizio degli anni Settanta al 1994 non hanno lesinato in concessioni. Un esempio è la legge Mosca approvata nel 1974. Ne hanno beneficiato coloro che erano dipendenti dei sindacati e dei partiti e non erano stati da questi messi in regola. Non iscritti alla previdenza. Da aggiungere i tanti privilegi concessi a questa o a quell’altra categoria. Poi esistono quelli che si sono attribuiti i politici.
L’attuale governo, pur avendo sulle spalle un così grande debito e dinnanzi una asfittica crescita, ha scelto dal 2008 la strada delle edulcorate assicurazioni, che non hanno mai convinto. Asserire che tutto fosse sotto controllo può in un certo senso essere anche giustificato per non creare il panico. Ma ci sono dei limiti da rispettare se Annibale è alle porte, quando perdura oltre i ragionevoli tempi una fase negativa sotto il profilo finanziario ed economico.
L’Italia sta diventando un problema anche per la stessa sopravvivenza dell’euro. La stampa straniera da tempo non è per niente tenera nel mettere in risalto quanto di negativo c’è da noi, a cominciare da una burocrazia oltremodo pesante. Articoli ripresi dal numero 911 di “Internazionale”, il settimanale diretto da Giovanni De Mauro, e posti all’attenzione dell’opinione pubblica.
Per gli osservatori stranieri l’ipotesi del fallimento italiano non è per niente peregrina. Il paese è ingessato per i veti incrociati. Niente liberalizzazioni e nessun intervento per modernizzare. La crescita, come accennato, è di là da venire. Il Fondo europeo di stabilità finanziaria, come ha riferito Uri Dadush del “Foreign Politicy”, ha calcolato che nei prossimi tre anni l’Italia ha bisogno di 1.400 miliardi di dollari, che non ci sono. Alessandro Profumo al Workshop Ambrosetti di Cernobbio ha stimato che ci vorrebbero subito dai 300 ai 400 miliardi per far scendere il debito dal 120% al 90% del Pil. 
A sua volta Birgit Schonau del “Die Zeit” ha informato che per “far ripartire l’economia l’Italia deve ringiovanire la classe politica, aprire il suo mercato e combattere la criminalità organizzata del sud”. Si può aggiungere una vera lotta all’evasione, finora è stata in buona parte di facciata, e un sistema fiscale meno oppressivo, che riconosca giuste detrazioni per stimolare la richiesta di scontrini, ricevute e fatture. Tutti debbono contribuire. Un’ultima annotazione. E’ senz’altro fantapolitica. Sembra che in Ungheria circoli una voce. Se fosse tramutata in una proposta e sottoposta a referendum potrebbe avere il cento per cento dei consensi. Gli amministratori pubblici che non conseguono gli obiettivi promessi vanno a casa, o meglio consegnati tra quattro pareti. Eccessivo ed inapplicabile se rispondesse al vero, comunque propedeutico. Si ricordino le cattedrali nel deserto.
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