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Quando l’ingegneria economica non basta

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di Giuseppe Blasi
Il tornado che si è abbattuto sulle  economie mondiali ha provocato disastri che sono ben lontani dalla soluzione positiva che si pretenderebbe di raggiungere quasi esclusivamente con provvedimenti di ingegneria economica che, per definizione, è  e sempre più si dimostra parziale e settoriale nella disamina dei problemi. 
L’attuale crisi che investe l’Europa e in particolare l’Italia, che preferirei chiamare “punto di flesso” della curva sinusoidale con la quale è possibile rappresentare il nostro cammino civile, non va a mio parere esaminata, come viene usualmente fatto, esclusivamente con l’ottica parziale di una scienza, l’economia, che sebbene sia, come dicevo, una scienza, rimane pur sempre un settore per la conoscenza dei fenomeni che investono le umane società. Questi, per essere esaminati, necessitano di analisi più articolate e complesse che devono obbligatoriamente tenere conto della stessa complessità del singolo essere umano, del singolo individuo, perché è di Lui che stiamo parlando. Del suo essere naturale, della sua storia e quindi del suo bagaglio cognitivo, del territorio sul quale è nato e dal quale ha ereditato tutto: dall’uso delle campagne alle città con tutti gli apparati produttivi e di servizio di cui dispone, fino all’intero patrimonio letterario e storico-artistico che ne influenzano i processi evolutivi.
E’altresì evidente come i processi civili in atto, poiché avvengono su scala planetaria o, come si usa dire, globale, non possono non investire anche il singolo paese. Ma ciò deve spingere a comprendere la complessità e la specificità dei fenomeni senza fermarsi alla sola analisi economica, poiché l’economia espressa da un paese altro non è che la risultante di un’azione ben più complessa, derivante da una serie innumerevole di comportamenti dei singoli o di gruppi che provengono da scelte o da costrizioni fortemente condizionate e per le quali in definitiva si rende necessaria l’azione della Politica. Questa dovrebbe possedere la capacità di sintesi propria dell’arte esprimendo al meglio le capacità dei ceti dirigenti che dovrebbero essere in grado di governare i fenomeni piuttosto che, come nel caso attuale, essere da essi condizionati.
Ecco quindi che, sebbene non si possa non concordare con molte delle analisi e considerazioni che emergono dalle scuole di economia, non si può tuttavia non osservare come queste risentano, come già osservato, di un tecnicismo corretto ma forse riduttivo rispetto la vastità dei problemi. Focalizzare acriticamente dati e indici sintetici quantitativi quali il Pil, lo spread, le analisi statistiche sulla popolazione, debiti pubblici, mercato, fiscalità e costo del lavoro, tassi di interesse e altro che la tecnica economica normalmente analizza, non aiuta a spiegare e mutare l’attuale situazione di crisi.
Faccio osservare che tutti questi indici e numeri sono risultanze e misure derivanti da comportamenti umani e da scelte che un’intera società compie nel suo percorso civile. Il Pil non si forma se non c’è materia che costituisca prodotto da vendere, il debito pubblico o l’avanzo di gestione non si forma senza una politica della spesa. In ogni caso la Storia mostra come, a periodi di benessere e di evoluzione della civiltà si sono alternati periodi di caduta della stessa. A tal proposito e per pura curiosità si ricorderà come nel secolo XII° la città di Roma avesse diminuito la propria popolazione fino a contare 40.000 abitanti, poco più di un borgo. Ai nostri giorni la chiusura delle fabbriche automobilistiche di Detroit, la perdita di abitanti che questa città sta registrando, la depressione del mercato immobiliare, sono tipici fenomeni derivanti da eventi non nuovi nella storia dell’umanità.
Ecco quindi che vengo al punto nodale del mio ragionamento. Non è più sufficiente al momento in cui siamo riconoscere i germi o i virus che hanno fatto ammalare l’organismo civile; non è più sufficiente operare in esso curandone i sintomi come in effetti avviene con l’applicazione delle tecniche suggerite dalla scienza economica. E’ necessario piuttosto ripensare l’azione della politica che deve intervenire con strategie di lungo periodo misurate sulla nuova dimensione dei fenomeni. 
Sarà così necessario, per quanto riguarda l’Italia, accanto alle soluzioni “tecniche” adombrate, fare scelte coraggiose in materia di politica e produzione energetica, affrontare temi di scelte produttive per la nostra industria che favorisca quelle a minore impatto energetico, investire con sapienza e determinazione sul nostro territorio favorendone la predisposizione alla attività turistica, intesa questa anche come capacità di attrazione nel mondo per una stanzialità semipermanente; intervenire inoltre con azione lungimirante per una significativa riduzione dell’apparato del pubblico impiego che troppo ha pesato e pesa sul nostro debito pubblico; eliminare una volta per tutte le inutili province e i costi della politica intesi come finanziamento pubblico ai partiti; ripristinare i dazi doganali per le merci “made in Italy” non interamente prodotte in Italia. Favorire certamente i risultati della “ricerca” (non i ricercatori improduttivi) e abolire definitivamente il valore legale del titolo di studio per dare un senso alla conoscenza e alle competenze che andranno adeguatamente premiate, al fine di evitare fuoriuscite di potenziale umano.
Sono queste alcune indicazioni strategiche, condivisibili o meno, che servono tuttavia per individuare un “metodo” più complesso e organico per la risoluzione dei problemi italiani che certamente si dovranno avvalere, ad integrazione, anche delle tecniche  suggerite dalla scienza economica.
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