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La Commissione europea riconosce e sostiene la giurisdizione contabile italiana nel caso di frode riguardante fondi comunitari in gestione diretta

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del Cons. Paolo Luigi Rebecchi
Si è in precedenza (1) riferito di alcune vicende nelle quali l’attività giurisdizionale della Corte dei conti italiana di tutela delle risorse finanziarie comunitarie aveva riguardato anche casi in cui i finanziamenti erano stati erogati dall’Unione europea a beneficiari finali, nell’ambito delle cosiddette “spese dirette”. In tali casi peraltro le indagini svolte dalle Procure regionali contabili erano state iniziate su impulso dell’OLAF.
In particolare si é riferito della sentenza emessa dalla Corte dei conti per il Lazio, sentenza n. 880 del  7 giugno 2011 che ha condannato una ONG operante nei paesi in via di sviluppo per l’indebita percezione ed utilizzazione di fondi a risarcire all’Unione la somma di oltre 800 mila euro. Per tale vicenda è attualmente pendente l’appello presso le Sezioni centrali della Corte dei conti.
Altro caso di particolare interesse  riguarda  il caso di un raggruppamento transnazionale di enti (pubblici e privati) ed imprese, beneficiari di finanziamenti erogati direttamente dall'Unione Europea nel settore dell'innovazione tecnologica e della ricerca (2).  
Per questa vicenda la Procura regionale della Corte dei conti  della Lombardia  ha richiesto  il sequestro conservativo a garanzia del credito. Il sequestro è stato parzialmente confermato con l’ordinanza n. 138/211 del giudice desinato della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Lombardia in data 27 luglio 2011.
Successivamente è stata emessa la citazione in giudizio dei presunti responsabili individuati in società e persone fisiche, con richiesta di risarcimento per l’importo di euro 53 milioni e 364.355,74 euro.
Una volta introdotto il giudizio, uno dei convenuti ha promosso un regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 41 del codice di procedura civile (3) chiedendo alla Corte di cassazione di dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice nazionale a favore del giudice comunitario (Tribunale di primo grado-Corte di giustizia) o in subordine, nel caso di affermazione della giurisdizione nazionale, la competenza del giudice ordinario anziché quella della Corte dei conti. La sezione giurisdizionale della Lombardia ha sospeso il giudizio in attesa della definizione del regolamento.
Il motivo principale del ricorso è fondato sulla osservazione che se è ormai pacifica la giurisdizione della Corte dei conti anche con riguardo alla posizione dei beneficiari di fondi “indiretti” (FESR, FEOGA, FSE), transitati nei bilanci nazionali (4) non può affermarsi altrettanto nel caso di spese dirette dell’Unione, non incidenti sui bilanci nazionali, in quanto nel caso di frodi o indebite percezioni o utilizzazioni di tali risorse il soggetto danneggiato è solo l’Unione europea e non un’amministrazione dello Stato membro.
Instaurandosi un rapporto contrattuale diretto fra beneficiario e Unione, l’unico giudice competente a decidere eventuali controversie sarebbe il giudice comunitario.
La questione è di particolare interesse in quanto, benché la Corte dei conti abbia già emesso alcune decisioni affermando anche in tali casi la propria giurisdizione (sez. Lazio n. 880/2011 cit.; sez.  Lombardia, n. 528/04 ,  sez. Lombardia ordinanza n. 138/211, cit.) non vi è stata ancora alcuna espressa pronuncia sul punto da parte della Corte di cassazione.
In attesa della decisione risulta importante sottolineare che la giurisdizione contabile nella vicenda è sostenuta anche dalla Commissione europea.
La Commissione infatti, oltre a costituirsi in giudizio nella udienza di convalida che ha portato alla ordinanza relativa al sequestro conservativo n. 138/2011, ha presentato un controricorso nel regolamento preventivo di giurisdizione presso le Sezioni Unite della Corte di cassazione, pienamente adesivo rispetto alle tesi sostenute dalla procura regionale della Corte dei conti per la Lombardia, che ha anch’essa presentato controricorso (estensori pm Gribaudo-Tommasini).
Nel controricorso la Commissione UE (avv.Favit) controdeduce sui motivi di ricorso affrontando i vari profili della vicenda.
Ha pertanto affermato l’insussistenza dei motivi relativi al “difetto assoluto di giurisdizione” del giudice italiano a favore di  quella della Corte di giustizia” , in quanto pur in presenza di clausole inserite nei contratti stipulati tra società beneficiarie dei fondi diretti e la Commissione , la devoluzione della giurisdizione al giudice comunitario può riguardare solo le questioni inerenti direttamente al contratto stesso, non avendo al contrario, il giudice comunitario, competenza a conoscere domande di risarcimento (art. 272 TFUE) su danno extracontrattuale, sia pure verificatosi nel contesto di una relazione contrattuale tra le parti (5)”. Il giudice dell’Unione può essere chiamato a valutare solo delle controversie in materia contrattuale, mentre per tutto ciò che esula da tale materia, rimane competente il giudice nazionale. Il giudizio contabile, infatti, non verte in materia contrattuale in quanto esso non mira all’accertamento di un inadempimento da parte dei convenuti agli obblighi contrattuali e all’eventuale condanna all’esecuzione dell’obbligazione contrattuale inadempiuta, ovvero, nel caso di specie, alla restituzione dei finanziamenti europei indebitamente percepiti, bensì all’accertamento della responsabilità amministrativa dei convenuti i quali nella loro veste di percettori di  finanziamenti pubblici, con il loro comportamento illecito (distrazione o indebita percezione o cattivo utilizzo), hanno arrecato un danno all’amministrazione pubblica alla quale sono legati da un rapporto d’impiego o di servizio, anche di fatto.
Circa poi la “presunta possibilità di radicare la giurisdizione del giudice dell'Unione sulla base di una decisione che vale titolo esecutivo ai sensi dell'art. 299 TFUE”, Il controricorso prosegue osservando che l’art. 299 TFUE si limita a individuare gli atti che costituiscono titoli esecutivi dell’Unione indicando le istituzioni da cui promanano, i soggetti che ne sono destinatari e il loro contenuto. La norma tuttavia non prevede in alcun modo il dovere delle istituzioni di adottare questi atti, la decisione di adottarli restando nella piena discrezionalità delle stesse. In particolare, le decisioni con le quali la Commissione dispone il recupero di somme che gli sono dovute si configurano come atti amministrativi che la Commissione adotta, in primo luogo, solo quando la procedura precontenziosa di recupero non sia andata a buon fine e, in  secondo luogo, qualora non è possibile o non è opportuno ricorrere all’ottenimento di un titolo per via contenziosa. Il Regolamento finanziario applicabile al bilancio generale dell'Unione (6) che al Capitolo V fissa le regole che la Commissione deve osservare nell’ambito delle operazioni di entrata al bilancio dell’Unione, prevede infatti che una volta emesso l’ordine di riscossione delle somme reclamate e averne informato il debitore, se questi non ha eseguito il pagamento volontario entro la data indicatagli, la Commissione avvia la procedura di recupero, con qualsiasi via legale, compresa, se necessario, l'esecuzione di qualsiasi garanzia preliminare. In particolare, la Commissione può procede al recupero mediante compensazione e a debita concorrenza dei crediti dell’Unione, a condizione che il debitore sia titolare di un credito certo, liquido ed esigibile nei confronti dell’Unione. Tuttavia, quando questa stabilisce che questa modalità di recupero non è esperibile, la Commissione ricorre all'esecuzione forzata del titolo, ovvero del credito formalizzato con una decisione che costituisce titolo esecutivo a norma dell'art. 299 TFUE, o sulla base di un titolo ottenuto in via contenziosa. Il ricorso alla decisione ex art. 299 TFUE per ottenere il recupero dei crediti, pertanto, non si configura per la Commissione come doveroso. Tale mezzo, invero, viene in rilievo solo nell’ambito della fase di recupero del credito tramite esecuzione forzata e solo quando, valutate le circostanze del caso, la Commissione determina che non è possibile o non è opportuno procedere all’ottenimento del titolo per la via contenziosa. In sintesi, riguardo all'adozione di decisioni che valgono titolo esecutivo ai sensi dell’art. 299 TFUE, la Commissione gode della discrezionalità propria di un’istituzione dotata di autonomia amministrativa (7). Con riguardo ai finanziamenti oggetto della controversia principale, la Commissione ha fatto uso della propria autonomia amministrativa scegliendo di non procedere al loro recupero tramite l’adozione di decisioni ex art. 299 TFUE, ma scegliendo di tutelare i propri interessi finanziari tramite il ricorso alla via contenziosa. In generale, le ragioni di questa scelta vanno attribuite alle difficoltà riscontrate nella procedura precontenziosa di recupero del credito durante la quale la Commissione ha potuto fin dall’inizio constatare che molte delle società intestatarie dei contratti litigiosi, le uniche contro le quali la Commissione avrebbe potuto agire tramite l’adozione di una decisione ex art. 299 TFUE, erano in realtà delle ‘scatole vuote’ create allo scopo specifico di essere presentate come partner fittizi per la gestione dei progetti in materia di ricerca ed innovazione tecnologica, e che una volta assolto tale scopo sono letteralmente scomparse. Considerata l'irreperibilità delle suddette società nonché la scomparsa dei capitali su cui rifarsi del credito, la Commissione ha ritenuto che fosse più efficace procedere con la costituzione di parte civile nel procedimento penale tutt’ora pendente dinanzi al Tribunale di Milano e tramite l’intervento ad adiuvandum nell’ambito del giudizio di responsabilità istaurato innanzi alla Corte dei conti. In particolare con riguardo al ricorrente, l'adozione di una decisione ai sensi dell'art. 299 TFUE sarebbe stata ad ogni modo impossibile in quanto egli non è entrato in relazione contrattuale con la Commissione e dunque non è suscettibile di vedersi indirizzare alcuna richiesta di recupero del credito da parte della Commissione (8). 
Nell’assenza di decisioni adottate ai sensi dell’art. 299 TFUE, pertanto, non è possibile sostenere che per l’effetto dell’art. 263 TFUE spetta alla sola Corte di giustizia la giurisdizione sulla controversia oggetto della procedura principale. Qualora peraltro per recuperare i finanziamenti indebitamente percepiti fosse stata adottata una decisione che vale come titolo esecutivo, la giurisdizione spettante alla Corte di giustizia sarebbe in questo caso soltanto quella di legittimità di cui all’art. 263 TFUE. In altre parole, in presenza di tale tipo di decisione, alla Corte di giustizia spetterebbe esclusivamente di statuire sui vizi dell’atto e, nell’ambito di tale scrutinio, valutare la fondatezza del credito vantato dalla Commissione. Tale giurisdizione, tuttavia, non potrebbe estendersi né agli aspetti relativi al rapporto contrattuale che da cui origina il vantato credito, per i quali, come sopra ricordato, ai sensi dell’art. 274 TFUE è di norma competente il giudice nazionale quale giudice comune della responsabilità contrattuale dell’Unione (salvo l’operatività di una clausola compromissoria), né a fortiori agli aspetti che vanno al di là di
tale rapporto contrattuale, come quelli che vengono in rilievo nel caso di danni agli interessi finanziari dell’Unione.
Una ulteriore considerazione viene poi effettuata con riguardo a quanto sostenuto nel ricorso con riguardo al precedente giurisprudenziale comunitario costituito dalla sentenza  Lucchini- della Corte di giustizia in data del 18 luglio 2007 secondo il quale il diritto dell’Unione osta all’applicazione del principio dell’autorità di cosa giudicata sancito dall’art. 2909 del codice civile italiano nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto dell’Unione e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione
divenuta definitiva.
Con ampie argomentazioni il contri corso evidenzia come tale principio riguardi esclusivamente le questioni inerenti il  contesto particolare degli aiuti di Stato nell’ambito del quale la Commissione gode della competenza esclusiva in ordine alla valutazione della loro compatibilità con il mercato comune, valutazione che dunque è sottratta ai giudici nazionali. E’ dunque per evitare un’invasione in un settore riservato alla competenza dell’Unione che la sentenza Lucchini sancisce la supremazia della decisione della Commissione che dichiara l’incompatibilità dell’aiuto di Stato con il mercato comune e ne ordina il recupero, rispetto all’applicazione della norma nazionale sull’autorità di cosa giudicata nella misura in cui tale applicazione impedisce allo Stato di procedere al recupero dell’aiuto illegittimo. Il suddetto principio non può trovare però applicazione nel caso di specie, in quanto in questo caso non è ipotizzabile alcuna invasione da parte del giudice nazionale in un settore di esclusiva competenza della Commissione.
Circa l’’ulteriore argomento a sostegno del difetto assoluto di giurisdizione del giudice nazionale nella controversia oggetto della procedura principale sostenuto dal ricorrente in base a ragioni di coordinamento e di cooperazione che ai sensi dell’art. 325, comma 3, TFUE sottendono all’azione degli Stati membri e della Commissione per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione e che impedirebbero il riconoscimento di una competenza a statuire su danni all’erario europeo in capo alle magistrature contabili degli Stati membri in quanto tale riconoscimento comporterebbe il rischio di giudicati diversi e contrastanti in ordine all’accertamento e all’esecuzione coattiva degli obblighi risarcitori, con rischio di lesione del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 6 della CEDU e, in generale, dell’esigenza di certezza giuridica, la Commissione osserva invece che l’argomento non è
convincente in quanto la competenza di un giudice nazionale si delimita rispetto a quella di un altro giudice nazionale astrattamente competente sulla base del criterio territoriale. In altri termini, in base a tale criterio è competente a statuire sul danno erariale, anche europeo, solo il giudice contabile del luogo in cui le condotte lesive si sono svolte. L’applicazione di tale criterio evita di per sé conflitti positivi di giurisdizione. Tuttavia, qualora in ragione delle diverse regole di giurisdizione di ciascun Stato membro sorgano conflitti positivi o negativi di giurisdizione, occorre fare appunto appello all’obbligo che l’art. 325, comma 3, TFUE impone agli Stati membri, di coordinare l’azione di questi diretta a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione. Tale obbligo, oltre che ad estrinsecarsi in uno scambio constante di informazioni tra le autorità nazionali competenti, anche per il tramite dell’OLAF, deve essere inteso, in assenza di una specifica normativa sul coordinamento nell’azione dei giudici contabili, nel senso di imporre un regolamento consensuale del conflitto di giurisdizione tra due magistrature contabili astrattamente competenti. Infine, anche l’ipotizzato conflitto tra giudicati emessi in diversi Stati membri in ordine all’accertamento del danno o alla condanna al risarcimento del danno non può far propendere per la soluzione proposta dal ricorrente proprio per l’operare del principio del ne bis idem riconosciuto in tutti gli ordinamenti degli Stati membri oltre che nello stesso ordinamento giudico dell’Unione. In tal modo la Commissione ritiene che un astratto e eventuale conflitto di giurisdizione e di giudicati tra magistrature contabili di diversi Stati membri ritenute competenti per statuire sul danno a carico del bilancio dell’Unione, non può giustificare l’esclusione della loro giurisdizione a favore di quella del giudice dell’Unione.
Quanto al presunto difetto di giurisdizione del giudice contabile a favore di quella del giudice ordinario la Commissione osserva che si tratta di motivo infondato argomentando   sulla base dell’orientamento giurisprudenziale che ha portato la Corte di Cassazione ad ampliare il novero dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti estendendo la nozione di rapporto di servizio fino a ricomprendervi tutte le ipotesi di esercizio privato di pubbliche funzioni (9).
In particolare, con riferimento ai c.d. finanziamenti indiretti, ovvero a quei finanziamenti che vengono erogati dall’Unione nell’ambito della gestione ‘concorrente’ di cui all’art. 53ter del Regolamento finanziario (fondi agricoli e strutturali), caratterizzata dal fatto che i compiti d’esecuzione del bilancio dell’Unione sono delegati agli Stati membri, l’indirizzo giurisprudenziale costantemente seguito dalla Corte dei conti e confermato dalla Corte di cassazione  è quello di estendere la giurisdizione contabile alle fattispecie di distrazione di questo tipo di risorse le quali, pur essendo di derivazione comunitaria, una volta assegnate entrano a far parte delle fonti di finanziamento del bilancio dell’amministrazione nazionale, regionale o locale, con la conseguenza che il cattivo utilizzo di esse si risolve in un pregiudizio per l’ente (10).
Il punto centrale della presente vicenda processuale riguarda comunque i finanziamenti europei diretti, per i quali non vi ancora alcuna pronuncia della Corte di cassazione.
Al riguardo la Commissione osserva che si tratta di finanziamenti che l’Unione europea eroga in modalità di gestione ‘centralizzata diretta’, di cui all’art. 53 del Regolamento finanziario (11) gestione caratterizzata dal fatto che i compiti di esecuzione del bilancio dell’Unione sono eseguiti direttamente dai servizi dell’Unione i quali entrano in rapporti diretti con i beneficiari dei fondi.
Con riguardo a tali fondi , la Corte dei conti ha ugualmente riconosciuto l'azionabilità innanzi a sé del danno consistente in una loro distrazione o cattivo utilizzo o indebita percezione, malgrado il danno sia subìto esclusivamente dall’Unione.  Per giungere a tale conclusione, la Corte dei conti, muovendosi lungo linea interpretativa volta all’ampliamento del concetto di ‘pubblica amministrazione’, ha ritenuto che l'art. 1, comma 4, della legge del 14 gennaio 1994 n. 2018, ai sensi del quale "la Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministratori e dipendenti pubblici anche quanto il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza", consenta di annoverare testualmente nella nozione di "amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza" anche l'Unione europea (12). Questa conclusione è stata confermata dalla Corte dei conti nell’ordinanza del 28 luglio 2012 n. 138 che ha convalidato il sequestro conservativo nei confronti dei convenuti nella controversia principale. Malgrado l'orientamento giurisprudenziale contabile che sottende alle precedenti pronunce non sia a tutt’oggi confermato dalla Suprema Corte di Cassazione, non risulta che esso sia smentito dal giudice della giurisdizione. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, non si rinvengono pronunce che neghino la giurisdizione contabile nel caso specifico di danni consistenti in percezioni illecite di finanziamenti provenienti direttamente dal bilancio dell’Unione europea. Nel silenzio della giurisprudenza della Cassazione, la Commissione ritiene perfettamente condivisibile l’impostazione seguita dalla Corte dei conti, in particolare, nella misura in cui essa fonda il riconoscimento della propria giurisdizione nella fattispecie di danno diretto al bilancio dell’Unione su una lettura estensiva della legge che
la determina alla luce del c.d. principio di assimilazione codificato dall’art. 325, comma 2, TFUE. In particolare, per radicare la propria giurisdizione non solo nei casi di danno da indebita percezione di fondi diretti (13), ma anche nei casi di danno da distrazione di fondi indiretti, la Corte dei conti fa riferimento all’art. 325, comma 2, TFUE, ritenendo che il principio di assimilazione da questa codificato si estende, oltre che alla tutela penalistica, anche alla tutela civile e amministrativo-contabile offerta nell'ordinamento italiano nelle ipotesi di danno da distrazione di fondi di provenienza nazionale, con conseguente applicazione delle regole della legge n. 20/1994 anche ai danni arrecati direttamente all'Unione europea.  Condividendo l'impostazione presupposta dalla Corte dei conti, la Commissione ritiene che il principio di assimilazione, nell'imporre che gli interessi finanziari dell’Unione europea siano assimilati a quelli nazionali, non permetta di distinguere a seconda che tali interessi siano lesi da una frode o da un'altra attività illegale che tocca i finanziamenti indiretti o quelli diretti. Invero, che la condotta fraudolenta o illegale sia attuata per distrarre un cofinanziamento agricolo o proveniente dai fondi strutturali piuttosto che un finanziamento diretto che non viene integrato nel bilancio nazionale, non può certo avere rilevanza rispetto all'obbligo imposto agli Stati membri di adottare misure dirette a prevenire, reprimere e sanzionare le frodi di ogni natura al bilancio dell'Unione, almeno equivalenti a quelle adottate per le frodi nazionali. Occorre, infatti, notare che né la nozione di frode agli interessi finanziari dell'Unione né quella d'irregolarità presupposte dall'art. 325 TFUE contemplano una distinzione tra finanziamenti diretti e indiretti. La nozione di frode agli interessi finanziari dell'Unione, che è quella prevista dalla Convenzione del 26 luglio 1995 relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee24 (convenzione TIF), prevede che per frode si intenda, in materia di spese, qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa (1) all'utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni false o di documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la percezione o la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio generale delle Comunità europee o dai bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse, (2) alla mancata comunicazione
di un'informazione in violazione di un obbligo specifico cui consegua lo stesso effetto, (3) alla distrazione di tali fondi per fini diversi da quelli per cui essi sono stati inizialmente concessi (14). Quanto all'irregolarità, essa è definita dal Regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla tutela 24 GU C 316 del 27.11.1995, pagg. 49–5, 7 come qualsiasi violazione di una disposizione di diritto comunitario derivante da un'azione o da un'omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio dell’Unione attraverso la diminuzione o la soppressione di entrate provenienti da risorse proprie percepite direttamente per conto dell’Unione, ovvero una spesa indebita. Entrambe le nozioni di quello che è l'oggetto della tutela da parte degli Stati membri, sono incentrate sulla sussistenza di una violazione del diritto dell'Unione e sul pregiudizio che tale violazione
arreca al bilancio dell'Unione. Ne consegue che non è possibile ritenere che solo le fattispecie di distrazione o di cattivo utilizzo di fondi indiretti integrino la nozione di frode agli interessi finanziari dell’Unione o di irregolarità di cui all’art. 325 TFUE.  E' evidente che le ipotesi di frodi o irregolarità che riguardano finanziamenti diretti non possono essere combattute ai sensi dell'art. 325 TFUE con meno vigore e meno forza di quelle riguardanti i finanziamenti indiretti. Pertanto, il principio di assimilazione trova applicazione anche con
riferimento ai finanziamenti diretti imponendo agli Stati membri, anche e soprattutto, in questo settore di adottare una previsione punitiva che disponga in termini analoghi a quanto sancito dall'ordinamento nazionale per le violazioni di diritto interno simili per natura e per importanza.  E' opportuno ricordare che con riguardo ai finanziamenti indiretti,
l'Unione europea ha predisposto espressamente un obbligo di repressione delle frodi e delle irregolarità direttamente nei regolamenti che istituiscono i fondi agricoli e strutturali (15), imponendo agli Stati di adottare in questi specifici settori, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative ed ogni altra misura necessaria per garantire l'efficace tutela degli interessi finanziari della Comunità, in particolare allo scopo di accertare se le operazioni finanziate dai fondi siano reali e regolari, di prevenire e perseguire le irregolarità e di recuperare le somme perse a seguito di irregolarità o negligenze. In questi casi, è prevista una responsabilità sussidiaria dello Stato il quale è chiamato a tenere indenne l'Unione delle somme irregolari oggetto del cofinanziamento comunitario a ragione del fatto che in questi casi i finanziamenti sono appunto indiretti, ovvero sono gestiti in modalità ‘concorrente’, ed integrano i bilanci nazionali, imponendo agli Stati l'onere di dimostrare la non imputabilità delle indebite percezioni a proprie carenze di gestione o controllo, pena il mancato discarico della somma corrispondente dall'importo indebitamente percepito. Nel caso dei finanziamenti diretti vale invece quanto disposto in generale dal regolamento del Consiglio n. 2988/95 il quale ha dettato una normativa relativa al controllo e alle misure e sanzioni amministrative riguardanti le irregolarità relative al diritto dell’Unione destinata ad applicarsi in tutti i settori contemplati dalle politiche dell’Unione in maniera complementare rispetto alla disciplina settoriale in vigore.  Ciò conferma che il diritto dell’Unione nel promuovere la salvaguardia degli interessi finanziari dell’Unione non ha voluto distinguere tra interessi diretti e interessi mediati dall’erogazione del contributo allo Stato, imponendo agli Stati in entrambi i casi un sforzo repressivo, preventivo o sanzionatorio almeno comparabile a quello speso per la protezione degli interessi nazionali. In sintesi, la Commissione ritiene che in forza dell'art. 325 TFUE gli Stati membri debbano perseguire le frodi e le irregolarità anche qualora esse attengano a finanziamenti che sono direttamente a carico del bilancio dell’Unione. Con riguardo, infine, all’argomento per cui in caso di finanziamenti diretti non sarebbe possibile considerare l’Unione ‘la diversa amministrazione’ di appartenenza di cui all’art. 1, comma 4, legge n. 20/1994, in quanto in questo caso l’amministrazione di appartenenza, o meglio quella con la quale il soggetto autore del danno istaura un rapporto di servizio funzionale o di fatto, finirebbe per coincidere con l’amministrazione danneggiata, è sufficiente notare che la formulazione della disposizione in questione ammette che tale coincidenza sia possibile e implica che anche in un simile caso la giurisdizione contabile sia riconosciuta. Invero, nel prevedere che la giurisdizione contabile sussista ‘anche’ quando il danno sia cagionato ad amministrazioni diverse da quelle di appartenenza, la disposizione non può che presupporre che detta giurisdizione sussista nel caso in cui ciò non avviene, ovvero nel caso in cui il danno venga arrecato alla amministrazione di appartenenza, intesa nel senso più estensivo di amministrazione con la quale il soggetto ha istaurato un rapporto di
servizio funzionale o di fatto. Pertanto, “…l’ipotesi considerata aberrante da parte del ricorrente…” corrisponde in realtà all’ipotesi più classica di danno erariale ovvero quella commessa dal funzionario nei confronti dell’amministrazione che lo impiega. Peraltro, tale fattispecie è espressamente prevista come riconducibile alla giurisdizione contabile dal canone generale che ordina tale giurisdizione, ovvero il Regio Decreto del 12 luglio 1934 n. 1214 il cui art. 52 assegna alla Corte dei conti la giurisdizione proprio per i giudizi promossi nei confronti dei funzionari pubblici o agenti che cagionino, per dolo o colpa grave, un danno alla pubblica amministrazione nell’esercizio delle loro funzioni. Alla luce delle considerazioni suesposte, la Commissione ritiene che il primo argomento invocato a sostegno del difetto di giurisdizione della Corte dei conti in favore di quella del giudice ordinario debba essere respinto in quanto infondato.
Altre considerazioni sono formulate in ordine all’ “effetto diretto dell'art. 325, comma 2, TFUE”. Il  ricorrente sostiene che, contrariamente a quanto fino ad oggi affermato dalla Corte dei conti, l’art. 1, comma 4, legge n. 20/1994 non potrebbe essere applicato ai danni al bilancio dell’Unione per mancanza di effetto diretto dell’art. 325, comma 2, TFUE. In sostanza, in mancanza di tale effetto, il principio di assimilazione codificato dalla suddetta disposizione del Trattato non permetterebbe di estendere la giurisdizione contabile anche ai danni arrecati agli interessi finanziari dell’Unione i quali dovrebbero pertanto rimanere di spettanza del giudice civile. A questo proposito, la Commissione ritiene che il riconoscimento o meno di un effetto diretto all'art. 325, comma 2, TFUE sia irrilevante ai fini del radicamento della giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie attualmente pendenti innanzi a sé. In effetti, occorre ricordare che le norme dei Trattati hanno con l'ordinamento italiano lo stesso impatto di ogni altra normativa internazionale pattizia: tali norme richiedono per la loro entrata in vigore nell'ordinamento interno l'esaurimento delle procedure costituzionali prescritte, ovvero la ratifica del trattato e l'ordine di esecuzione.  Secondo l’ormai classica giurisprudenza dell’Unione (16) una volta entrate in vigore nell’ordinamento interno, le norme del diritto dell’Unione, ed in particolare le norme del Trattato, godono del carattere dell' ‘applicabilità diretta’ o ‘immediata’ la quale va intesa nel
senso che tali norme devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, per tutta la durata della loro validità. Le disposizioni direttamente applicabili sono una fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro ch'esse riguardano, siano essi gli Stati membri ovvero i singoli. Avendo l'Italia ratificato e dato esecuzione al Trattato di Lisbona che istituisce il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, l'art. 325, comma 2, TFUE è penetrata nell'ordinamento giuridico italiano e produce di per sé effetti nell'ordinamento italiano, senza la necessità di norme interne di adattamento o recezione. Diversa invece è la questione del riconoscimento dell'effetto diretto di una disposizione di diritto dell'Unione ed in particolare del Trattato. L'applicabilità immediata di una norma di diritto dell'Unione non significa, infatti, che la norma sia dotata di effetto diretto, nel senso di essere idonea a creare dritti ed obblighi direttamente e utilmente in capo ai singoli, senza cioè che lo Stato eserciti quella funzione di diaframma che consiste nel porre in essere una qualche procedura formale per riversare sui singoli gli obblighi e i diritti prefigurati da norme esterne al sistema giudico nazionale. In generale, le disposizioni come quella in questione, che sono indirizzate allo Stato membro non possono dirsi self-executing ovvero dotate del suddetto effetto diretto, in quanto si limitano ad imporre un obbligo allo Stato senza creare a vantaggio dei singoli posizioni giuridiche soggettive tutelabili in . Per acquisire il suddetto effetto, la giurisprudenza 44 dell’Unione ha chiarito che occorre che le disposizioni del Trattato siano sufficientemente chiare e precise e la cui applicazione non richiede l’emanazione di ulteriori atti comunitari o nazioni di esecuzione o comunque integrativi (17). A tali condizioni, anche una diposizione del Trattato che si limiti ad imporre allo Stato membro obblighi o divieti formulati precisamente e chiaramente, può creare diritti tutelabili per il singolo, diritti che in definitiva corrispondono alla contropartita dell'obbligo imposto allo Stato membro (18). Nel caso di specie, l'art 325, comma 2, TFUE è una disposizione chiaramente indirizzata agli Stati membri rispetto alla quale, tuttavia, nel caso di specie si può prescindere dal porsi la questione se essa sia dotata o meno di effetto diretto nel senso sopra indicato. In effetti, essendo tale disposizione entrata a far parte dell'ordinamento interno, essa produce non solo l'effetto di porre in capo allo Stato membro l'obbligo di dare attuazione al suo contenuto, ma anche quello di porsi come parametro di compatibilità comunitaria alla luce del quale il giudice nazionale deve interpretare la normativa interna. In effetti, una consolidata giurisprudenza dell’Unione ha elaborato la teoria dell’obbligo di interpretazione conforme con riguardo a direttive non trasposte, o recepite in ritardo o non nei modi previsti dal Trattato, ovvero con riguardo ad atti privi di effetto diretto. Conformemente a tale giurisprudenza "i giudici nazionali, nell’applicare il diritto interno, devono interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 249, terzo comma, CE (v., segnatamente, sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C- 403/01, Pfeiffer e a., Racc. pag. I-8835, punto 113, e giurisprudenza ivi citata)” (19). Più in generale, la Corte ha riconosciuto che "l’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in particolare, sentenza Pfeiffer e a., cit., punto 114)” (20). Fondato sul principio di leale cooperazione sancito dall'art. 4, n. 3, TUE, l'obbligo d'interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di adattare per via ermeneutica il contenuto precettivo della normativa interna agli obiettivi prescritti dall'ordinamento dell'Unione, e questo nonostante sussista un inadempimento del legislatore nazionale all'obbligo specifico imposto dal diritto dell’Unione. Nel caso di specie, dunque, per quanto lo Stato membro non abbia compiutamente adempiuto all'obbligo prescritto dall'art. 325, comma 2, TFUE, non avendo adottato un'apposita legge che determini gurisdizione della Corte dei conti anche in materia di danno all'erario europeo, il principio dell'interpretazione conforme richiede che "i giudici nazionali facciano tutto quanto compete loro, prendendo in considerazione il diritto interno nella sua interezza e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e pervenire ad una soluzione conforme alla finalità perseguita da quest’ultima (v.sentenza Pfeiffer e a., cit., punti 115, 116, 118 e 119)"(21). Orbene, l'art. 325, comma 2, TFUE pone a carico degli Stati membri l’obbligo di adottare per combattere la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione le stesse misure adottate per combattere la frode che lede gli interessi finanziari dello Stato, sulla base del presupposto dell' assimilazione tra i fondi dell’Unione e quelli nazionali.  Il principio di assimilazione codificato da suddetta disposizione, nei termini in cui è stato originariamente formulato dalla sentenza della Corte di giustizia del 21 settembre 1988, nella causa C-68/8835, Mais greco, prevede infatti che gli Stati membri, "pur conservando la scelta delle sanzioni, devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza e che, in ogni caso conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva" (22).Gli obblighi degli Stati non sembrano limitarsi al solo diritto sostanziale ma si estendono anche alla sfera della procedura, dal momento che le autorità nazionali devono procedere nei confronti delle violazioni del diritto comunitario anche in questo caso, con la stessa diligenza usata nell'attuazione delle rispettive legislazioni nazionali.In sentenze successive, la Corte di giustizia ha ribadito il concetto nei termini seguenti: "[…] come risulta dall’art. 325 TFUE, gli Stati membri, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, sono tenuti ad adottare le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi. Di conseguenza, […] quando il legislatore dell’Unione non ha adottato una normativa settoriale diretta a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione nei confronti della condotta di taluni soggetti, gli Stati membri possono legittimamente mantenere o adottare disposizioni in tale settore e nei confronti di tali soggetti ove queste ultime risultino necessarie alla lotta contro la frode e rispettino i principi generali del diritto dell’Unione, segnatamente quello della proporzionalità, […]. Infatti, si deve sottolineare che, quando una normativa dell’Unione non contempla alcuna disposizione specifica che stabilisca sanzioni in caso di violazione della stessa o quando una simile normativa prevede che talune sanzioni possano applicarsi in caso di violazione del diritto dell’Unione, ma non determina in modo esaustivo le sanzioni che gli Stati membri possono infliggere, l’art. 4, n. 3, TUE impone agli Stati membri di adottare tutte le misure efficaci al fine di sanzionare i comportamenti lesivi degli interessi finanziari dell’Unione (v., in tal senso, sentenze 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione/Grecia Racc. pag. 2965, punto 23, nonché 8 luglio 1999, causa C-186/98,Nunes e de Matos, Racc. pag. I-4883, punti 12 e 14) (23)”. In particolare, "l'art. 10 CE impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte ad assicurare la portata e l'efficacia del diritto comunitario (sentenze 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione/Grecia, Racc. pag. 2965, punto 23; 10 luglio 1990, causa C-326/88, Hansen, Racc. pag. I-2911, punto 17; Milchwerke Köln/Wuppertal, cit., punto 23; 26 ottobre 1995, causa C-36/94, Siesse, Racc. pag. I-3573, punto 20; 27 febbraio 1997, causa C- 177/95, Ebony Maritime e Loten Navigation, Racc. pag. I-1111, punto 35, nonché 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, Racc. pag. I 10155, punto 62). L'obbligo fondato sull'art. 10 CE ricomprende anche ogni azione di diritto amministrativo, tributario o civile, diretta a riscuotere o a recuperare imposte o tasse eluse in modo fraudolento o a ottenere il risarcimento del danno (sentenza Milchwerke Köln/Wuppertal, cit., punto 23) (24)". Nella ricostruzione della giurisprudenza dell'Unione, la finalità dell'art. 325, comma 2, TFUE è dunque quella di assicurare una tutela degli interessi finanziari dell'Unione almeno comparabile a quella accordata dagli Stati membri alla tutela del patrimonio economico  Tenuto conto che uno dei mezzi di sicura efficacia, che l'ordinamento italiano prevede per protegge l'erario nazionale da condotte lesive è quello che consiste nella possibilità di esperire un'azione in responsabilità amministrativa dinanzi alla Corte dei conti nei confronti degli autori di tali condotte, appare chiaro che la lettura della normativa italiana alla luce dell'art. 352, comma 2, TFUE, non possa non portare ad un'interpretazione estensiva della legge n. 20/1994, che determina la giurisdizione della Corte dei conti, nel senso di considerare tale giurisdizione sussistente anche per i casi di danni arrecati al bilancio dell'Unione. A questo punto è opportuno rilevare che l'obbligo d'interpretazione conforme "trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (v., per analogia, sentenza 16 giugno 2005, causa C- 105/03, Pupino, Racc. pag. I-5285, punti 44 e 47) (25)". In particolare, nel settore del diritto penale, stante il principio di tassatività delle fattispecie penali, non è possibile che una lettura della normativa penalistica alla luce dell'art. 325, comma 2, TFUE consenta di ampliare le fattispecie penali poste a tutela del bene giuridico dell'erario nazionale fino a ricomprendervi la tutela degli interessi (26). Lo stesso si potrebbe dire con riguardo alla normativa che determina la giurisdizione della Corte dei conti, se la legge n. 20/1994 prevedesse espressamente che la giurisdizione contabile fosse riservata esclusivamente ai danni all'erario nazionale. Tuttavia, nel caso di specie, l'art. 1, comma 4, della legge n. 20/1994 è formulato in maniera tale da consentire al giudice nazionale una sua interpretazione estensiva alla luce del parametro dell'art. 325, comma 2, TFUE. Infatti, nel prevedere che la giurisdizione contabile possa conoscere dei danni arrecati anche ad un'amministrazione diversa da quella di appartenenza degli autori di tali danni, la legge nazionale non esclude espressamente che per tale diversa amministrazione si intenda quella europea. Con riguardo agli altri limiti che l'interpretazione conforme incontra, ed in particolare a quello della certezza del diritto, è opportuno ricordare che la Corte ha argomentato che il diritto dell'Unione può spingersi fino al punto di esigere che un ordinamento nazionale apra una via giurisdizionale per l'impugnazione di un atto interno, anche quando normalmente nessun rimedio è previsto (27) o che si assicuri la tutela cautelare anche in ipotesi non previste dal diritto nazionale (28). Peraltro, nel caso di specie, un problema di certezza del diritto non dovrebbe sorgere in quanto la Corte di Cassazione ha già avallato una lettura estensiva della legge che determina la giurisdizione della Corte dei conti giungendo fino a ricomprendervi tutti i danni che si estrinsecano in una frustrazione dello scopo perseguito dalla pubblica amministrazione a prescindere dalla qualità del soggetto che li pone in essere e dal rapporto che lo lega alla pubblica amministrazione. Tale interpretazione giurisprudenziale non è diversa da quella che qui si
sostiene, ovvero secondo la quale la giurisdizione della Corte dei conti deve estendersi anche ai danni all’erario europeo. Infine, è opportuno rilevare che l'obbligo d'interpretazione conforme incombe ai giudici nazionali nei limiti della loro competenza. Esso, infatti, si pone come uno dei criteri ermeneutici a disposizione del giudice nazionale per giungere ad un'interpretazione della normativa nazionale conforme alle finalità del Trattato. Poiché la definizione dell'estensione di una giurisdizione nazionale è una questione di ordine interno, che attiene all'interpretazione di disposizioni legislative o costituzionali nazionali, non può che spettare al giudice nazionale disporre di tale canone ermeneutico al fine di assicurare l'effettività del diritto dell'Unione. Alla luce delle suesposte ragioni, la Commissione ritiene che la Corte dei conti abbia correttamente interpretato la legge che determina la propria giurisdizione considerandola sussistente anche nelle ipotesi di danno all'erario europeo. Così facendo, la Corte dei conti ha, infatti, adempiuto all'obbligo di interpretazione conforme che l'art. 4, n. 3, TUE in combinato disposto con l'art. 325, comma 2, TFUE gli impone. Questa conclusione non è inficiata dalla possibile mancanza di effetto diretto dell'art. 325, comma 2, TFUE.  Segue da quanto detto che la giurisdizione della Corte dei conti per danni all'erario europeo deve ritenersi perfettamente fondata a discapito di quella del giudice ordinario. In conclusione, la Commissione ritiene che anche il motivo di ricorso sollevato a titolo secondario vada respinto perché infondato.
Vengono infine formulate considerazioni sulla prospettata necessità di rinvio delle questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE.  La richiesta di regolamento preventivo di giurisdizione, finalizzata alla dichiarazione di difetto assoluto di giurisdizione nazionale e, più specificamente, di giurisdizione della Corte dei conti, è subordinata dal ricorrente alla richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 267 TFUE affinché quest'ultima possa statuire sulle questioni esegetiche sollevate nel ricorso. Il ricorrente ha formulato infatti sette quesiti pregiudiziali interpretativi che vertono sui diversi aspetti del diritto dell'Unione e che a suo parere sono meritevoli di rinvio pregiudiziale. In proposito, la Commissione desidera evidenziare che nessuna delle domande formulate dal ricorrente è suscettibile di legittimare il ricorso al meccanismo previsto dall'art. 267 TFUE, per mancanza dei presupposti essenziali inerenti a tale disposizione come interpretata dalla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia.
La Commissione sostiene quindi non sussistere l’obbligo della Corte di Cassazione di accogliere la richiesta di rinvio pregiudiziale.
Al riguardo precisa in ordine alla effettiva portata dell'obbligo di rinvio per una giurisdizione di ultima istanza di cui all'articolo 267, comma 3 TFUE. Tale disposizione sancisce che un
organo giurisdizionale nazionale, "avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno", "è tenuto" a rivolgersi alla Corte, quando siano presentate domande inerenti all'interpretazione del diritto dell'Unione. Ciò tuttavia non equivale ad un meccanismo automatico di rinvio, in virtù del quale una giurisdizione di ultima istanza è tenuta ex officio ad effettuare un rinvio pregiudiziale ogni qualvolta una delle parti sollevi o indichi dei quesiti inerenti al diritto dell'Unione, come pare suggerire il ricorrente. Il dettato dell'art. 267, comma 3, TFUE va interpretato alla luce del secondo comma del medesimo articolo, che lo procede da un punto di vista sistematico formale e sostanziale. L'art. 267, comma 2, TFUE statuisce che un organo giurisdizionale nazionale "può" effettuare un rinvio pregiudiziale su un punto di diritto dell’Unione "qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto". Pertanto, tale disposizione sancisce la mera facoltà di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per le giurisdizioni nazionali non di ultima istanza, che devono valutare l'opportunità ed il merito del suddetto rinvio alla luce dell'effettiva utilità e pertinenza delle domande al fine della risoluzione delle fattispecie litigiose de quibus. n proposito, occorre ricordare che la costante giurisprudenza dell'Unione ha statuito che spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte (29). La Corte di giustizia ha chiarito già con la risalente sentenza Cilfit (30) 46 (pronunciata proprio a seguito di un rinvio pregiudiziale da parte della Corte  di cassazione italiana ) che l'art. 267 TFUE (all'epoca art. 177 CEE) "non costituisce un rimedio giuridico esperibile dalle parti di una controversia pendente dinanzi ad un giudice nazionale. Non basta quindi che una parte sostenga che la controversia pone una questione di interpretazione del diritto comunitario perche il giudice interessato sia obbligato a ritenere configurabile una questione sollevata ai sensi  (31) dell'art. 177. Per contro spetta a detto giudice adire, se del caso, d'ufficio la Corte di giustizia." La Corte di Lussemburgo ha altresì stabilito che: "dal rapporto fra i commi 2 e 3 dell'art. 177 discende che i giudici di cui al 3° comma dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto comunitario onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono pertanto tenuti a sottoporre alla corte una questione di interpretazione di norme comunitarie sollevata dinanzi ad essi se questa non è pertinente, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia , non possa in alcun modo influire sull' esito della
lite"(32). Di conseguenza, l'obbligo di rinvio pregiudiziale gravante sulla Corte di Cassazione, quale autorità di ultima istanza in un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, sorge, ai sensi dell'art. 267, comma 3, TFUE, solo dopo che essa abbia accertato l'effettiva necessità di ricorre ad un’interpretazione della Corte di giustizia al fine
di risolvere la controversia di cui è stata investita. Pertanto, spetta alla Corte di Cassazione valutare preliminarmente, alla luce delle circostanze inerenti al caso de quo e del diritto dell'Unione vigente, se i quesiti posti dal ricorrente soddisfano quella condizione di necessaria imprescindibilità per risolvere la fattispecie litigiosa. Se, come è d'avviso la Commissione, le questioni sollevate dal ricorrente non presentano alcuna rilevanza o utilità ai fini della risoluzione della controversia di cui è investita la Corte di cassazione quest'ultima non è tenuta ad accogliere la richiesta di rinvio pregiudiziale ed è esentata dall'obbligo di cui all’art. 267, comma 3, TFUE.
In aggiunta a quanto sopra esposto, la Commissione desidera sottolineare che esiste un ulteriore ventaglio di ipotesi in cui una domanda di rinvio pregiudiziale risulterà inammissibile in seguito allo scrutinio della Corte di giustizia. La Corte di giustizia ha ritenuto di non poter statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione di una norma dell’Unione o il giudizio sulla sua validità, chiesti da tale giudice, non hanno alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, laddove il problema sollevato sia di natura ipotetica o quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (33). Infatti, lo spirito di collaborazione che deve presiedere allo svolgimento del procedimento pregiudiziale implica che il giudice nazionale tenga presente la funzione di cui la Corte di giustizia è investita, che è quella di contribuire all’amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche (34). Inoltre, risulta da consolidata giurisprudenza dell'Unione che non esiste opportunità o obbligo di effettuare il rinvio pregiudiziale nel caso in cui "la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia gia stata decisa in via pregiudiziale"50 o laddove esiste una "giurisprudenza costante della Corte che, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere" (35). Infine, la ommissione desidera ricordare che il compito assegnato alla Corte di giustizia in virtù dell'art. 267 TFUE è di offrire la corretta esegesi del diritto dell'Unione europea. Fuoriesce, pertanto, dal mandato giurisdizionale attribuito alla Corte il giudizio e l'interpretazione delle norme di diritto interne ad uno Stato membro, prive di legame con il diritto dell'Unione. La Corte, infatti, nel pronunciarsi nell’ambito di un procedimento pregiudiziale, non può (36) certamente interpretare disposizioni legislative o regolamentari nazionali (37). In tal modo  la Commissione ritiene che i quesiti pregiudiziali formulati dal ricorrente siano tutti inammissibili nella loro interezza, sicché non vi è ragione di effettuare il rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267 TFUE. Tali quesiti presentano, in virtù del loro contenuto, uno o più dei profili d'inammissibilità testé esposti. Essi difatti non presentano alcuna pertinenza per la risoluzione del regolamento di giurisdizione sollevato davanti a questa On.le Corte (il che fa venir meno l'obbligo di rinvio pregiudiziale) e/o rivestono un carattere puramente ipotetico, sollevano questioni già risolte dalla giurisprudenza dell'Unione, ed attengono a profili di diritto interno estranei alla giurisdizione della Corte di Giustizia. Il primo quesito posto dal ricorrente presenta un carattere del tutto ipotetico e non riveste alcuna attinenza ai fini della risoluzione della controversia de qua. Inoltre, la consolidata giurisprudenza dell'Unione sulla natura e la portata dell'articolo 272 TFUE permettono di fornire già una risposta esaustiva ai dubbi surrettiziamente sollevati. Nel caso de quo la clausola contenuta nel contratto non potrebbe comunque applicarsi alla situazione del ricorrente, poiché il sig. S… non è parte a nessuno dei contratti conclusi con la Commissione, oggetto della controversia pendente dinanzi alla Corte dei conti. Di conseguenza, la richiesta di esegesi di tale norma del Trattato non risulta in alcun modo necessaria ai fini della soluzione della questione sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti nel caso di specie, poiché la clausola
non potrebbe in ogni caso applicarsi al sig. S… ratione personae. Tale constatazione è sufficiente di per sé a dimostrare il carattere puramente accessorio ed ipotetico del quesito nonché la sua totale irrilevanza ai fini della soluzione del regolamento di giurisdizione.  Inoltre, come osservato al punto III.3 sub a) del presente controricorso, la consolidata giurisprudenza dell'Unione sulla portata dell'art. 272 TFUE quale norma relativa alla clausola di proroga della giurisdizione della Corte di giustizia avente carattere eccezionale e soggetta dunque ad un'interpretazione restrittiva, consente già al giudice adito di concludere nel senso che tale clausola non attribuisce alla Corte di giustizia competenza a conoscere delle azioni in responsabilità amministrativa come quelle pendenti dinanzi al giudice contabile, vertendo queste in una materia esclusa dall'operatività della clausola compromissoria, in quanto non contrattuale.Pertanto, a parere della Commissione, il quesito sub (a) è inammissibile, in quanto esso non è strettamente necessario alla risoluzione del regolamento preventivo di giurisdizione, riveste un carattere puramente astratto ed ipotetico, e solleva questioni su cui la giurisprudenza dell’Unione si è già ampiamente espressa. Riguardo al secondo quesito, la Commissione desidera evidenziare che la questione sulla natura del potere attribuito alla Commissione ai sensi dell'art. 299 TFUE (e sulla competenza della Corte di giustizia a conoscere della validità delle decisioni adottate sulla base di tale norma) non presenta alcuna utilità per la risoluzione del regolamento di giurisdizione pendente davanti alla Corte dio cassazione riveste un carattere ipotetico e trova già risposta nella giurisprudenza dei giudici dell’Unione.  A questo proposito, è sufficiente ricordare che nel caso di specie la Commissione non ha adottato e non potrebbe comunque adottare una decisione ex art. 299 TFUE, in quanto tale decisione può essere adottata solo nei confronti delle parti contrattuali e non può essere indirizzata a soggetti terzi estranei al rapporto contrattuale, quale è appunto il ricorrente. Di conseguenza, interrogarsi sulla natura e sulla portata di tale disposizione non riveste alcuna utilità per la soluzione della questione della giurisdizione della Corte dei conti.  Inoltre risulta da una consolidata giurisprudenza dell’Unione che la Commissione dispone, in relazione all'adozione di decisioni fondate sull'art. 299 TFUE, di un ampio margine discrezionale che può essere censurato ai sensi dell’art. 236 TFUE solo in casi di manifesto e grave errore di valutazione. Pertanto, la Commissione rimane libera di scegliere quale rimedio adottare per il recupero delle somme dovute e può optare per una decisione ex art. 299 TFUE o preferire di ricorrere a
rimedi giurisdizionali nazionali, ove li ritenga più efficaci. Di conseguenza, il quesito sub (b) risulta anch'esso inammissibile poiché non necessario, ipotetico e già risolto alla luce della
giurisprudenza dell'Unione. l terzo ed il quarto quesito pregiudiziale sollevati dal ricorrente sono finalizzati a conoscere se il fatto che, per l’effetto della sentenza Lucchini, una futura ed eventuale sentenza del giudice italiano, che disconoscesse il diritto di credito della Commissione, dovrebbe essere disapplicata, ancorché passata in giudicato, da una decisione di ripetizione dell'indebito ex art. 299 TFUE, eventualmente confermata dalla Corte di giustizia a seguito di ricorso in annullamento presentato ex art. 263 TFUE, o da una sentenza della stessa ex art. 272 TFUE, non dimostrerebbe che per evitare un’indebita invasione in un settore riservato alla competenza dell’Unione, la giurisdizione nella controversia principale debba essere affidata al giudice dell’Unione. Il testo e la finalità di tali quesiti li rendono palesemente inammissibili. Essi, infatti, hanno un carattere totalmente ipotetico ed astratto, basandosi addirittura su un quadruplice ordine di ipotesi future (se il giudice italiano pronunciasse una sentenza di disconoscimento, se successivamente la Commissione adottasse una decisione ex art. 299 TFUE, se le Corti europee confermassero la decisione della Commissione, se la Corte di giustizia si pronunciasse ex art. 272 TFUE). Risulta evidente che tali quesiti rientrano fra quelle richieste di pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche, senza alcuna utilità effettiva ai fini dell'amministrazione della giustizia, rispetto alle quali la Corte di giustizia ha decretato di non doversi pronunciare. Pertanto i suddetti quesiti devono essere ignorati dalla Corte in quanto puramente ipotetici ed astratti e privi d’utilità e di rilevanza per la soluzione della controversia in questione. Analoga censura può invero essere mossa al quesito sub (e), con cui il ricorrente s'interroga se "le ragioni del coordinamento e della cooperazione di cui all'art. 325, comma 3, TFUE, della precostituzione legale del giudice e del divieto di ne bis in idem (art. 6 CEDU), della certezza giuridica ostano ad un assetto nel quale le magistrature contabili nazionali perseguono in ordine sparso pregiudizi all'erario europeo, senza che soccorrano meccanismi di regolazione e raccordo tra giudizi attivati nei vari paesi per gli stessi fatti e nei confronti degli stessi conventi con conseguente rischio di duplicazioni indebite di (accertamento giudiziale ed esecuzione coattiva di) obblighi restitutori/risarcitori." Tale quesito risulta talmente astratto, generico ed ipotetico da non poter in alcun modo essere ritenuto di rilievo o d’interesse per la causa de qua. Esso solleva delle questioni di politica legislativa e criminale, che difficilmente rivestono interesse o rilievo nel caso di specie (il quale, inoltre, è un caso strettamente nazionale, per cui il riferimento al rischio di duplicazioni di azioni giudiziarie transfrontaliere risulta di ancor più difficile comprensione). Mediante ulteriori quesiti, il ricorrente desidera che venga chiesto alla Corte di giustizia se considerato che l'art. 325, comma 2, TFUE si indirizza soltanto agli Stati membri imponendo loro di combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione tramite l’adozione delle stesse misure adottate per combattere la frode nazionale, esso possa avere effetto diretto, e, in caso di risposta negativa, il ricorrente si chiede se le misure richieste dalla suddetta disposizione possano consistere in un indirizzo giurisprudenziale o debbano necessariamente concretizzarsi in strumenti legislativi. Entrambi i quesiti sono inammissibili. Il primo  invero, riceve già risposta nella giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di effetto diretto, mentre il secondo pone ai giudici di Lussemburgo una questione di diritto puramente interna, estranea pertanto alla loro sfera di giurisdizione. La questione dell'effetto diretto dell'art. 325, comma 2, TFUE è irrilevante ai fini del riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti nelle fattispecie oggetto della procedura principale. L'esigenza di assicurare un rimedio risarcitorio in diritto interno ai fini della tutela degli interessi finanziari dell'Unione discende, infatti, dall'obbligo d'interpretazione conforme della normativa nazionale alla luce dell'art. 325, comma 2, TFUE, cui il giudice nazionale è assoggettato in forza del principio di leale cooperazione e non in applicazione di un'eventuale effetto diretto di questa disposizione.  Infine, il quesito sub (g), sul metodo da seguire per definire la giurisdizione della Corte dei conti si risolve in una questione di ordine interno, che attiene all'interpretazione di disposizioni legislative o regolamentari nazionali che non competono alla giurisdizione della Corte di giustizia. Spetta, infatti, all'ordinamento italiano disporre un
rimedio e una regola che attribuiscano giurisdizione sui litigi di cui alla controversia principale, al fine di assicurare l'effettività del diritto dell'Unione. La questione del modo e del mezzo con cui assicurare tale tutela giurisdizionale non spetta al giudice dell'Unione, il che rende inammissibile il quesito proposto dal ricorrente.

 

Note

(1) “Rapporti fra sequestro penale e sequestro contabile in recenti esperienze in tema di frodi comunitarie nel settore delle spese dirette”, in Argilnews n.9 settembre 2011(https://www.newsandsociety.net/pdf/201104-argilnews.pdf).

(2) Le indagini penali e contabili hanno evidenziato in tal caso la predisposizione di proposte (finalizzate all'ottenimento del finanziamento) riportanti informazioni non veritiere, la rendicontazione di spese inesistenti ovvero "gonfiate" attraverso l'utilizzo di falsa documentazione contabile relativa a società italiane ed estere (alcune delle quali come detto in realtà "scatole vuote"), l'inserimento in rendicontazione quali "ricercatori" di soggetti inesistenti ovvero del tutto ignari. In relazione a tale vicenda vi è stato il rinvio a giudizio in sede penale nei confronti di 23 soggetti  per il reato di truffa aggravata nei confronti dell'Unione Europea, 7 dei quali denunciati anche per il reato di associazione a delinquere, con l’ulteriore contestazione del  il reato transnazionale ex Legge 146/2006, mentre nei confronti di 3 enti è stata ascritta la responsabilità amministrativa prevista dal D.Lgs. 231/2001. Grazie alle truffe i progetti non vedevano apporti finanziari privati: i contributi comunitari venivano distratti dagli indagati e destinati ad altri fini, mentre le attività di ricerca (riguardanti i settori della sanità, della pubblica amministrazione, della sicurezza stradale e dell'università) sono risultate essere "fasulle" e/o comunque prive di applicazione concreta. A conclusione delle indagini, svolte su 22 progetti finanziati dalla Commissione Europea, sono stati contestati in quanto illecitamente percepiti oltre 53 milioni di Euro.  

(3) Art. 41 c.p.c. “Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte  può chiedere alle Sezioni Unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione, di cui all’art. 37…”.

(4) Utilizzo dei fondi strutturali. Attività di controllo”, in Argilnews-gennaio 2012(https://www.newsandsociety.net/pdf/201201-argilnews.pdf); “Il “saccheggio “” dell’erario attraverso le frodi nei finanziamenti pubblici secondo la relazione anticorruzione” 2010,in  Argilnews-n.4-maggio2011 (https://www.newsandsociety.net/pdf/201104-argilnews.pdf); “La circolazione della prova nel processo contabile”, in Atti del VII Convegno di studi- UAE-OLAF  su “La circolazione della prova nell’Unione europea e la tutela degli interessi finanziari”, Milano, 27-29 gennaio 2011- ediz. 2011- CESPE (Centro studi di diritto penale europeo), pagg.  163-184;; “Frodi comunitarie e danni finanziari secondo la Corte dei conti italiana”, in Argilnews-n.3-  marzo 2011  (https://www.newsandsociety.net/pdf/201101-argilnews.pdf). 

(5) Sentenza della Corte di giustizia del 18 dicembre 1986, causa 426/85,Commissione/Zoubek, Racc. pag. 4057, punto 11; sentenza del 20 febbraio 1997, IDE/Commissione, causa C-114/94, Racc. pag. I-803, punto 82; sentenza del 3 dicembre 1998, causa C-337/96, Commissione/Industrial Refuse & Coal Energy Ltd., Racc. pag. I- 07943, punto 49; sentenza del Tribunale del 3 marzo 2011, Caixa Geral de Depósitos, SA/ Commissione, causa T-401/07, Racc. pag. II-00039, punti 99-102. In queste sentenze si legge che: «La competenza della Corte fondata su una clausola compromissoria costituisce una deroga rispetto al diritto ordinario e quindi va interpretata in senso restrittivo. La Corte può conoscere solo delle domande che derivano da un contratto stipulato dalla Comunità e contenente la clausola compromissoria o che siano in relazione diretta con le obbligazioni derivanti da detto contratto».

(6) Regolamento (CE-Euratom) n. 1605/2002 del Consiglio, del 25 giugno 2002, che stabilisce il regolamento finanziario applicabile al bilancio generale delle Comunità europee, in GU L 248 del 16.9.2002, pagg. 1–48.

(7) Tale autonomia amministrativa è stata riconosciuta dalle Corti dell'Unione per diversi settori di attività della Commissione, in primis nel diritto della concorrenza, in merito al quale è stato affermato che la Commissione è responsabile dell’orientamento e dell’attuazione della politica comunitaria della concorrenza dell’Unione e dispone a tal fine di un potere discrezionale nel trattare le denunce (sentenza del Tribunale del 26 gennaio 2005, causa T-193/02, Piau/Commissione, Racc. pag. II-209, punto 80; sentenza 12 luglio 2007, causa T-229/05, AEPI/Commissione, Racc. pag. II-00565, punto 38; sentenza del 15 dicembre 2010, causa T-427/08, CEAHR/Commission, Racc. pag. II- 5865, punto 26. In materia di antidumping, il Tribunale di primo grado ha altresì sostenuto che "nell’ambito delle misure di difesa commerciale, le istituzioni comunitarie godono di un ampio potere discrezionale in considerazione della complessità delle situazioni economiche, politiche e giuridiche che devono esaminare" (sentenza del 5 giugno 1996, causa T-162/94, NMB France e a./Commissione, Racc. pag. II-427, punto 72; sentenza del 29 gennaio 1998, causa T-97/95, Sinochem/Consiglio, Racc. pag. II-85, punto 51; sentenza del 17 luglio 1998, causa T-118/96, Thai Bicycle/Consiglio, Racc. pag. II-2991, punto 32; e del 4 luglio 2002, causa T-340/99, Arne Mathisen/Consiglio, Racc. pag. II-2905, punto 53). Infine, la Commissione dispone dello stesso ampio margine di discrezionalità nel decidere se avviare procedure di infrazione avverso gli Stati. 

(8) Ciò in quanto nel giudizio di responsabilità amministrativo contabile non sono state convenute solo le società in rapporto contrattuale con la Commissione ma anche persone fisiche, soggetti amministratori di dette società che hanno con la loro azione realizzato l’illecita percezione dei contributi. In tal modo l’azione di responsabilità contabile ha anche superato lo “schermo societario” che funge spesso da tramite delle illecite attività di percezione. Tale ampliamento delle figure soggettive convenibili in giudizio di responsabilità ha trovato ormai conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione con riguardo a casi di finanziamenti pubblici comunitari indiretti (Fondi strutturali ) o  a casi di finanziamenti nazionali.  la Corte di Cassazione, con la  sentenza Sez. un civ. n. 20434 del 23 settembre 2009 ha  ribadito , da un lato la rilevanza in termini di danno erariale delle ipotesi di indebita percezione o utilizzazione di finanziamenti pubblici, facendo espresso riferimento anche alle risorse di provenienza comunitaria , e dall’altro ha condiviso un indirizzo giurisprudenziale del giudice contabile per il quale l’inserimento in via di fatto degli amministratori di una persona giuridica privata nel procedimento di utilizzazione delle risorse pubbliche ne determina l’assoggettamento alla giurisdizione contabile unitamente alla persona giuridica beneficiaria formale del finanziamento. In particolare, nella fattispecie si trattava di un’opera pia  (ex IPAB trasformata in persona giuridica privata) che aveva percepito fondi regionali e comunitari per un importo   di oltre 400 mila euro e che non erano stati correttamente utilizzati. Convenuti in giudizio erano stati sia la persona giuridica, che aveva stipulato una convenzione con la regione, sia l’amministratore della stessa persona giuridica. In tal senso è l’ulteriore pronuncia Cass. Sez. un civ. (ord.)  n. 23332 del 27 ottobre 2009 (con richiamo ad altra precedente n. 22513/2006 anch’essa in tema di indebito utilizzo di finanziamenti pubblici) , pur con riferimento a fattispecie di danno erariale verificatasi nell’ambito della gestione di un contratto di gestione immobiliare affidato da un ente pubblico istituzionale a una associazione temporanea di imprese  fra due società a responsabilità limitata. Ancora con ordinanza n. 10062 del 9 maggio 2011  le Sezioni Unite hanno affermato che “… la Corte dei conti ha giurisdizione anche …per l’azione di danno erariale proposta non già nei confronti della società a favore della quale il contributo pubblico sia stato erogato, ma direttamente di chi (amministratore) abbia distratto le somme oggetto del finanziamento, così frustrando gli scopi perseguiti dalla pubblica amministrazione. L’instaurazione del rapporto di servizio è correlata infatti non solo alla società beneficiaria del contributo degli effetti degli atti dei suoi organi, ma anche all’attività stessa di chi, disponendo della somma erogata in modo diverso da quello preventivato o ponendo in essere i presupposti per la sua illegittima percezione, abbia provocato la frustrazione dello scopo direttamente perseguito dall’amministrazione. Questa Corte è pervenuta a tali conclusioni sul presupposto che , concorrendo il soggetto destinatario del contributo alla realizzazione del programma della p.a. tra la stessa e il beneficiario si instaura un rapporto di servizio per cui il beneficiario assume, ai fini della giurisdizione della Corte dei conti, la stessa posizione propria di un dipendente o amministratore della p.a.. In particolare, nel caso di contributi dati a soggetti estranei questi rispondono per la diversa ragione che, pur essendo estranei, gestiscono risorse pubbliche vincolate all’impiego preventivato, sicché l’applicazione della responsabilità amministrativa è diretta. Che poi “”i soggetti che debbono impiegare quelle risorse non siano funzionari della stessa o di altra pubblica amministrazione, ma privati, società o non, non rileva: l’assimilazione è ben assicurata dalla figura del rapporto di servizio. Posto infatti che il dato fondante della responsabilità è la distrazione di fondi pubblici, è consequenziale che ne rispondano sia il soggetto cui il finanziamento sia stato erogato (nella specie la società beneficiaria) sia i soggetti che li hanno distratti per averne avuto la disponibilità (così testualmente ordinanza 5019/2010)…”.   

(9) A partire dal 2003 la Corte di Cassazione ha inaugurato un indirizzo interpretativo che, tenendo conto del mutamento intervenuto nel tempo nel modus operandi della pubblica amministrazione, chiamata ad operare sempre più di frequente non più solo tramite soggetti organicamente inseriti nella stessa, ma anche per mezzo di modelli organizzativi ormai lontani dagli schemi del regolamento di contabilità di Stato, ha considerato che la giurisdizione della Corte dei conti sussiste anche nei confronti di amministratori o dirigenti di enti pubblici economici (Cass. Sez. Un. Ord. del 22 dicembre 2003 n.16697) di società per azioni partecipate da enti pubblici, con capitale da questi detenuto in misura assolutamente maggioritaria (Cass. Sez. Un. sentenza del 26 febbraio 2004 n. 3899) e di aziende municipalizzate (Cass. Ord. n.3351 del 2004). Secondo tale indirizzo interpretativo, ai fini del riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, è irrilevante il titolo in base al quale la gestione del pubblico denaro è svolta, potendo detto titolo consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, ma anche in una concessione amministrativa o in un contratto di diritto privato. In questa prospettiva, quindi, la qualità del soggetto che gestisce il denaro pubblico non rappresenta un indicatore significativo per incardinare la giurisdizione contabile, dovendosi invece avere riguardo alla natura del danno e alla tipologia degli scopi perseguiti. Ne consegue che qualora il privato cui siano stati erogati fondi pubblici, per la sua censurabile condotta, incida negativamente sul modo d'essere del programma imposto dalla pubblica amministrazione, alla cui realizzazione egli è chiamato a partecipare con l'atto di concessione del contributo, in tal modo determinando uno sviamento delle finalità perseguite, egli provoca un danno per l'ente pubblico, anche sotto il mero profilo di precludere l’erogazione del finanziamento ad altri possibili beneficiari, di cui deve rispondere dinnanzi al giudice contabile (Cass. Sez. Un., sentenza del 1° marzo 2006 n. 4511 e del 20 ottobre 2006 n. 22513, ordinanza del 23 settembre 2009 n. 20434 e sentenza n. 26806 del 2009). La Corte di cassazione ha inoltre chiarito che un rapporto di servizio tra un soggetto privato, destinatario del contributo pubblico, e la pubblica amministrazione è ravvisabile tutte le volte in cui detto soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione, sia investito del compito di porre in essere in sua vece, con risorse pubbliche e nell’interesse dell’amministrazione, un’attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell’atto di investitura, provvedimento, convenzione o contratto, né quella del soggetto che la riceve, persona giuridica o fisica, privata o pubblica. Concorrendo tale soggetto alla realizzazione del programma della pubblica amministrazione, in forza del rapporto di servizio che si è instaurato con la pubblica amministrazione, il beneficiario dell’erogazione pubblica assume ai fini della giurisdizione della Corte dei conti la stessa posizione propria di un dipendente o amministratore della pubblica amministrazione. Pertanto, la distrazione di denaro pubblico da parte di soggetti privati, pur estranei alla pubblica amministrazione, ma incaricati di gestire le risorse pubbliche vincolate all’impegno preventivato, configura una frustrazione dello scopo perseguito dall’amministrazione e determina l’applicazione della disciplina della responsabilità amministrativa e l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti (Cass. Sez. Un. ordinanza del 3 marzo 2010 n. 5019, sentenza del 27 aprile 2010 n. 9963 confermata dalle ordinanze del 27 aprile 2010 n. 9966 e n. 9967).

(10) Cass.sez. un civ. ordinanza del 22 novembre 2010 n. 23599; sent. del 5 maggio 2011 n.9846; Corte dei Conti, Sez. Lombardia, 4 marzo 2008, n° 135; Corte dei Conti, Sez. Lombardia, 17 luglio 2007, n° 414; Corte dei Conti, Sez. Abruzzo, 11 gennaio 2007, n° 32; Corte dei Conti, Sez. Lombardia, 5 settembre 2007, n° 448; Corte dei Conti, Sez. Trentino Alto Adige, 18 luglio 2006, n° 58; Corte dei Conti, Sez. Lombardia, 22 aprile 2006, n° 114; Corte dei Conti, Sez. II giurisdizionale centrale d’Appello, 20 marzo 2006, n° 125; Corte dei Conti, Sez. Molise, 7 ottobre 2002, n° 234. Cass. Sez. Un. ord. del 23 settembre 2009 n. 20434;Cass. Sez. Un. sentenza del 14 luglio 2010 n. 16505.

(11) I fondi erogati sotto questa forma di gestione riguardano l’attuazione delle politiche interne e di alcune azioni sterne.

(12) Corte dei conti, sez. giur. Regione Lombardia, sentenza del 8 aprile 2004 n. 584;  Corte dei Conti, sez. giur. Regione Lazio, sentenza del 7 giugno 2011 n. 880; In tal senso anche Sez. Lombardia , sentenza n. 416/2012 che ha accolto la domanda di revocatoria promossa dalla Procura Regionale, ai sensi dell’art. 1, comma 174, della Legge del 23/12/2005 n. 266 e degli artt. 2901 e segg. c.c., nei confronti di Basaglia e della CR Outermarke GmbH (procedimento n. G.27153); la sentenza n. 417/2012 che ha accolto la domanda di revocatoria promossa dalla Procura Regionale, ai sensi dell’art. 1, comma 174.

(13) Corte dei conti,  sez. Lombardia, sentenza n. 528/2004 cit.

(14) Art. 1, comma 1, lett. a), Convenzione TIF.

(15) Regolamento (CE) n. 1290/2005 del Consiglio, del 21 giugno 2005, relativo al finanziamento della politica agricola comune (GU L 209 del 11/08/2005 pag. 1 – 25), art. 9, ed il Regolamento (CE) n. 1083/2006 del Consiglio dell'11 luglio 2006 recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione e che abroga il regolamento (CE) n. 1260/1999 (GU L 210 del 31.7.2006, pag. 25), art. 70.

(16) Corte di giustizia del 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629.

(17) Per tutte si veda sentenza della Corte del 14 luglio 1971, causa 10/71, Muller, Racc. pag.

(18) Per tutte, sentenza della Corte di giustizia del 5 febbraio 1963, causa 26-62, Van Gend & Loos, Racc. pag. 3 .

(19) Sentenza della Corte di giustizia del 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler e a., Racc. pag. I-06057, punto 108.

(20) Sentenza Adeneler e a., cit., punto 109.

(21) Sentenza Adeneler e a., cit., punto 111.

(22) Sentenza 'Mais greco', cit. punto 25.

(23) Sentenza della Corte di giustizia del 28 ottobre 2010, causa C-367/09, SGS Belgium NV e a., Racc. pag. I-10761, punti 40 e 41.

(24) Sentenza della Corte di giustizia del 15 gennaio 2004, causa C-230/01, Penycoed, Racc. pag. I-00937, punti 36 e 37.

(25) Sentenza Adeneler e a., cit., punto 110. 

(26) Tra le alte, sentenza della Corte del 26 settembre 1996, causa C-168/95, Arcaro, Racc. pag. I-04705, punto 42.

(27) Sentenza della Corte di giustizia del 3 dicembre 1992, causa C-97/91, Oleificio Borelli SpA, Racc. pag. I-6313, punti 7-15.

(28) Sentenza della Corte di giustizia del 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame Ltd e altri, Racc. pag. I-2433, punti 17-22.

(29) V., in particolare, sentenza della Corte di giustizia del 9 dicembre 2010, causa C-568/08, Combinatie Spijker Infrabouw-De Jonge Konstruktie e a., Racc. pag. I-12655, punto 42 e giurisprudenza ivi citata.

(30) Sentenza della Corte di giustizia, del 6 ottobre 1982,Causa 283/81, Cilfit, Racc. pag. 3415, punto 9.

(31) Sentenza della Corte di giustizia del 9 dicembre 2010, causa C-568/08, Combinatie Spijker Infrabouw-De Jonge Konstruktie e a., Racc. pag. I-12655, punto 42 e giurisprudenza ivi citata.

(32) Sentenza Cilfit, cit., punto 10.

(33) Sentenza Combinatie Spijker Infrabouw-De Jonge Konstruktie e a., citata, punto 43; e sentenza del 15 luglio 2004, causa C-315/02, Lenz, Racc. pag. I-07063,  punto 52 e giurisprudenza ivi citata.

(34) Sentenza della Corte di giustizia del 30 giugno 2005, causa C-165/03, Längst, Racc. pag. I-5637, punto 33.

(35) Sentenza Cilfit, cit., punto 14.

(36) Sentenza della Corte di giustizia del 27 marzo 1963, cause 28-30/62, Da Costa en Schaake e.a., Racc. pag. 73.

(37) Sentenza Combinatie Spijker Infrabouw-De Jonge Konstruktie e a., cit., punto 46 e giurisprudenza ivi citata. 

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