Europa - News and Society

European News Portal

  • Full Screen
  • Wide Screen
  • Narrow Screen
  • incrementa grandezza carattere
  • Default font size
  • Riduci grandezza carattere

As we may think: vivere il presente costruendo il futuro

E-mail Stampa PDF
Riflessioni sul ruolo dell’università per il futuro e nel futuro della nostra società

di Ciro Attaianese (Rettore dell’Università degli Studi di Cassino - 1)  
E’ nei momenti di crisi che siamo costretti a chiederci chi siamo, a distinguere l’essenziale dall’effimero, a promuovere il cambiamento rifiutando la cultura della paura: quella cultura che rischia di rubarci il futuro con il pretesto degli errori commessi nel passato e della crisi economica e finanziaria di oggi, e questo non possiamo tollerarlo in primo luogo per i nostri giovani, prima ancora che per noi stessi. 
As we may think è il titolo di un famoso articolo dello scienziato americano Vannevar Bush pubblicato nel luglio del 1945 e considerato il documento precursore di internet, ben prima della sua nascita ufficiale, collocabile nel 1982. Si era nell’immediato dopoguerra e Bush, partendo dalla constatazione dello straordinario sviluppo della ricerca scientifica negli anni della guerra, afferma testualmente che “i metodi disponibili per trasmettere e accedere ai risultati della ricerca sono vecchi di generazioni e totalmente inadeguati” e cita l’esempio delle leggi di Mendel pubblicate nel 1865, ma rimaste misconosciute per 35 anni. Ma non si ferma qui. Egli immagina e propone una macchina denominata Memex, non realizzabile con gli strumenti disponibili a quei tempi, raffigurabile come una sorta di scrivania elettromeccanica con la quale sarebbe stato possibile memorizzare, ricercare, associare e riprodurre documenti di ogni tipo. Esattamente ciò che 40 anni dopo è diventata internet: un contenitore straordinario in grado di immagazzinare, selezionare e rendere disponibile qualunque conoscenza, che è poi il sogno di ogni ricercatore. 
Uno strumento, internet, che ha segnato e sta segnando una svolta nella trasmissione delle informazioni e nei rapporti interpersonali e che proprio per questo costituisce uno strumento di progresso quasi paragonabile alla creazione del linguaggio, della scrittura, della stampa.
Al di là del caso specifico, pur estremamente significativo, As we may think esprime un approccio mentale, un atteggiamento culturale di cui abbiamo oggi tutti un gran bisogno.  Vivere il presente immaginando e costruendo il futuro. Bush immaginava e proponeva soluzioni per le generazioni future. Una capacità di progettare e indirizzare lo sviluppo che può superare e bruciare la vaghezza della sorte attribuita al futuro che genera rassegnazione e nichilismo, soprattutto nei momenti  di crisi come questo. 
Non ci è dato di sapere se la crisi che si è abbattuta in questi ultimi tre anni prima sulla finanza e poi sull’economia sarà la peggiore dei prossimi 20, 50 o 100 anni. In ogni caso, prescindendo dalla velocità di uscita da questa fase recessiva, ci saranno sicuramente conseguenze che il sistema della ricerca e dell’alta formazione sarà chiamato a fronteggiare.
La prima deriva dal fatto che, anche in presenza di una ripresa degli indicatori macroeconomici, occorrerà del tempo prima che ci siano ricadute positive sull’occupazione. Il sistema dell’alta formazione dovrà quindi esprimere maggiore e più concreta attenzione nei confronti del tema della disoccupazione, che per la prima volta comincia a interessare in maniera significativa anche persone in possesso della laurea. 
In secondo luogo, la sia pur timida ripresa attualmente in corso è stata resa possibile da interventi a valere sui bilanci pubblici che non hanno precedenti. Le finanze pubbliche nel futuro risentiranno di questo sforzo e inevitabilmente ci sarà pressione anche sui fondi pubblici per la ricerca e per l’alta formazione,  il cui contributo alla ripresa economica, purtroppo, non sempre è compreso, soprattutto nel nostro paese.
Infine la crisi non ha determinato nel suo complesso un rifiuto della globalizzazione come da più parti incautamente ed erroneamente previsto; ciò implica che l’orizzonte della ricerca scientifica e dell’alta formazione sarà sempre più quello internazionale.
In quest’ottica qual è il ruolo dell’Università per il futuro e nel futuro della nostra società? Il sogno humboldtiano dell’unità e della complementarietà fra ricerca e insegnamento sarà ancora valido e sostenibile nel futuro? Il mutare continuo del ruolo e delle funzioni dell’università è un rischio futuro, o piuttosto una realtà? Domande a cui non è semplice dare una risposta. In ogni caso, anche di fronte a uno scenario caratterizzato da risorse limitate, ritengo che restino fondamentalmente tre gli aspetti che sempre dovranno caratterizzare l’identità  dell’università.
In primo luogo l’università è e deve rimanere il luogo privilegiato per la ricerca di base e per quella applicata. Oggi tutti concordano a parole sull’importanza della ricerca scientifica per la società e per lo sviluppo, sulla necessità di investire in essa. Purtroppo, quando poi dalle enunciazioni di principio si passa ai fatti, si scopre che ciascuno ha un'idea diversa di ricerca scientifica, avendo spesso come unico obiettivo i finanziamenti che il dire di fare ricerca può portare.
In secondo luogo l’università deve sempre più essere una fucina di opportunità. Opportunità per gli studenti migliori, ma anche per il territorio su cui l’università agisce e opera. In quest’ultimo caso si parla spesso di terza missione dell’università: una missione sostanziata e definita dai concetti di innovazione e trasferimento. Tuttavia il trasferimento dei risultati della ricerca e della vita universitaria nel suo complesso deve intendersi non in termini restrittivi e limitati  all’aspetto tecnologico, ma in senso più ampio  rispetto all’insieme di creazioni intellettuali e di valori che ogni università genera e mette al servizio del contesto sociale in cui opera. Infine, l’Università deve affiancare alla produzione di conoscenza la generazione del dubbio. In altri termini, deve fungere da coscienza critica della società in una prospettiva non focalizzata esclusivamente sul presente, contribuendo in maniera determinante, proprio come Vannevar Bush con As we may think, a immaginare e costruire il futuro.
Proprio per tutto questo, va ribadito con forza che l’Università non può essere considerata alla stregua delle altre spese correnti, per di più residuale e comprimibile a piacere senza effetti sulla società e sull’economia. Il problema economico spesso ostentato per giustificare la riduzione delle risorse rappresenta un falso problema. Il sistema universitario italiano ha un valore apparente per il bilancio dello stato di circa 7 miliardi di euro all’anno. Apparente poiché il ritorno fiscale su questa cifra porta il valore reale a carico del bilancio statale a poco meno di 4 miliardi, ovvero  0,25% del PIL,  0,21% del deficit pubblico, 0,77% delle spese correnti. Tanto per rimanere sui numeri, immediatamente leggibili e inequivocabilmente comprensibili, questo significa che se dall’oggi al domani chiudessimo tutti gli atenei, licenziando tutto il relativo personale, il deficit pubblico del nostro stato passerebbe nell’immediato da 1.843 a 1.839 miliardi di euro (2). E poi? Sarebbe una riduzione risibile e per di più effimera, un micro-vittoria di Pirro. Di quanto crescerebbe il deficit pubblico dopo per effetto del depauperamento del capitale umano del nostro paese? Il declino sarebbe ineluttabile e per di più rapido, poiché la conoscenza e le persone che ne dispongono sono elementi essenziali per vincere la sfida dello sviluppo. Il vero problema, quindi, non è finanziario, bensì culturale su come devono essere intesi il ruolo e la  natura dell'università. 
In questo contesto si inserisce  l’approvazione nel 2010 della legge di riforma dell’università.
Una legge che ha visto un percorso di approvazione tormentato, con dure prese di posizione dall'una e dall'altra parte e con un dibattito troppo spesso condotto con semplificazioni mediatiche al di fuori di una corretta e produttiva dialettica. Soltanto la prova dei fatti, la verifica sperimentale sul campo ne evidenzierà pregi e difetti al di là di qualunque discussione. Un fatto è però certo sin da ora: non ci sono più alibi per chi è chiamato a definire le risorse da destinare al sistema universitario. Sono state date nuove regole per rendere virtuoso un sistema considerato, in maniera mediaticamente sommaria, inefficiente e corrotto. Ora occorre che insieme alle nuove regole siano date anche nuove risorse, che risultino almeno confrontabili con quelle disponibili in tutti i paesi con cui, in altri casi, amiamo confrontarci. 
Tornando alla legge di riforma è opportuno evidenziare, fra gli aspetti che suscitano maggiore preoccupazione, quello relativo alla valutazione della ricerca scientifica, per i riflessi che esso potrebbe avere sulla qualità della ricerca stessa, quella qualità che proprio la legge di riforma intenderebbe perseguire. Da sempre gli ingredienti per una buona ricerca scientifica sono semplici ma al tempo stesso irrinunciabili: immaginazione e rigore. Invece la valutazione della ricerca sta sempre più derivando verso paradigmi tecnico-amministrativi i cui effetti possono paradossalmente portare al declino della ricerca stessa.
Un esempio su tutti: un ricercatore che non pubblica è, senza eccezioni, inattivo in ricerca; al contrario, un ricercatore che pubblica regolarmente su riviste prestigiose è, a priori, un ricercatore dotato e produttivo. A partire da questo dogma è sorta un’industria della valutazione bibliometrica dei ricercatori, di cui oggi si abusa, nel vano tentativo di sottrarre il processo di valutazione a qualunque discrezionalità soggettiva, pur se eticamente responsabile.
Come spiegare altrimenti il caso di Jan Hendrik Schön, il ricercatore prodigio della fisica che è riuscito a pubblicare nell’intervallo di due anni e mezzo ben otto articoli sulla rivista Science e sette su Nature, che si sono poi rivelati, nel 2002, essere interamente costruiti su dati falsi  costringendo gli editori a ritirarli e le autorità universitarie tedesche a privarlo del titolo di dottore di ricerca? Il paragone con il fenomeno del doping nel ciclismo sovviene quasi immediato.
Una deriva tecnico-amministrativa della valutazione che arriva a conseguenze surreali: dal costo della valutazione, che spesso è confrontabile con le risorse complessivamente assegnate al processo valutato, se non addirittura maggiore, al tempo richiesto per la compilazione di moduli e rendiconti che ormai assorbe più della metà del tempo di un ricercatore. E che dire poi della richiesta, ormai abituale in tutti i moduli da compilare per ottenere un finanziamento, di dire in anticipo i risultati della ricerca? In tal modo si inducono i ricercatori a ridurre la cosiddetta presa di rischio scientifico, che consiste nell’esplorare nuove strade e nel mettere in discussione dogmi e paradigmi, mortificando in ultima analisi la creatività che è uno degli ingredienti fondamentali di una buona ricerca. Chiudo questa riflessione sul problema della valutazione della ricerca con un brano tratto da un libro di Leó Szilárd, uno dei fisici più brillanti del XX secolo, ideatore della reazione nucleare a catena. Nel libro un miliardario domanda al protagonista, un ricercatore, come si possa rallentare il progresso della scienza, secondo lui troppo rapido. Il ricercatore risponde:
Lei potrebbe creare un istituto, con un finanziamento annuale di 40 milioni di dollari. Ricercatori che abbiano bisogno di capitali potrebbero rivolgersi a questo istituto, purché presentino tesi convincenti. Nomini dieci comitati, ciascuno composto di dodici scienziati, con l’incarico di esaminare queste domande. Prenda dai laboratori gli scienziati più attivi e li faccia membri di questi comitati […]. Prima di tutto, i migliori scienziati sarebbero in questo modo allontanati dai loro laboratori e occupati nel lavoro dei comitati preposti all’assegnazione dei finanziamenti. Secondariamente, i ricercatori scientifici bisognosi di capitali si concentrerebbero su problemi ritenuti promettenti e tali da condurre con sicurezza a risultati pubblicabili. Per qualche anno ci sarebbe un forte incremento della produzione scientifica; ma ragionando a lume di naso, questo sarebbe proprio il sistema adatto per inaridire la scienza […]. Ci sarebbero ricerche considerate interessanti, altre no. Sarebbe una questione di moda. Chi segue la moda, ha i prestiti. Chi non la segue, no; e vedrà che faranno in fretta ad imparare a seguir la moda, anche loro.  
E' proprio vero: la storia e il bagaglio di esperienze che essa porta con sé spesso sembra non insegnarci nulla. 


Note

(1) Rettore dell’Università degli Studi di Cassino – Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. . L'articolo è tratto dalla relazione svolta in occasione della cerimonia di inaugurazione dell'anno accademico 2010-2011 svoltasi l'8 marzo 2011.
(2) Il dato si riferisce al momento di stesura dell'articolo.
 
 
 
Bibliografia

[1] L. Szilárd: La voce dei delfini e altri racconti, Feltrinelli, Milano, 1962, pp.134-135.
[2] Laurent Ségalat: La scienza malata?, Cortina, Milano, 2010.
[3] Crisis, Cuts, Contemplations – How Academia may help rescuing society, Atti convegno Magna Charta Universitatum, 2009.
You are here